martedì 27 dicembre 2011

Ma più lungo di tutti ce l'ha il papa


















L’albero di Natale, dico.
Pare che Obama se ne sia fatto installare uno di otto metri, sotto il quale raccogliere la famiglia mulino bianco a cantare Silent Night. Sull’altra sponda dell’Atlantico, la regina Elisabetta dal ’52 addobba personalmente la conifera più alta di palazzo Buckingham, con il principe consorte sotto, a tenerle la scala. Quindici metri in tutto e mezzo quintale tra palle e palline multicolori.
E dunque il record par proprio che anche quest’anno spetti al Vaticano: un enorme abete, rosso (pour faire pendant con la porpora curiale), alto trenta metri e proveniente dalla foresta della Transcarpazia, di cui sino a ieri nessuno aveva mai sentito parlare e dove vegetava felice da ben sessant’anni.

Tutto si sarebbe aspettato il povero albero tranne che finire imballato e spedito alla corte ingessata del papa di Roma, che, peraltro, non perde occasione per tessere le lodi all’opera somma del Creatore, richiamando ad ogni fiato la sacralità della vita, l’impareggiabile splendore della natura, il sommo rispetto che le è dovuto, ecc ecc… E poi? Un brutto giorno, in un angolo dimenticato del pianeta, mentre nessuno ascolta e vede, un lavoretto di sega elettrica nemmeno tanto complicato e un viaggio di 1800 chilometri dall’Ucraina, sono quel che ci vuole per allietare la vista dalle mille e più stanze del Palazzo apostolico.

Che obelischi, campanili, torri, antenne e persino gesti come il saluto romano costituiscano altrettanti simboli fallici non è mistero. La storia e le piazze d’Italia ne sono piene. E se nel cristianesimo il legno richiama la croce di Cristo, l’albero come fallo universale è simbolo molto più antico e presente come tale probabilmente in tutte le culture. Ma a preoccupare non è tanto la veniale concessione sincretistica finita con disinvoltura fra gli addobbi natalizi di piazza San Pietro; piuttosto, in ambito cristiano, rattrista la ricerca dell’enorme, l’ostentazione ancora oggi di ciò che è grandioso. E la necessità comunque di una qualche vittima sacrificale.
Gli aborigeni australiani in certe danze iniziatiche tirano fuori la lingua in tutta la sua lunghezza – organo non scevro da connotazioni sessuali – allo scopo di intimidire gli avversari. E certi primati (stando all’etologia) per ottenere il dominio sul gruppo e il consenso della sua parte femminile, nell’atto di iniziare la lotta mostrano sfacciatamente i genitali ai concorrenti. Vince chi ce l’ha più grosso. Salvo imbarazzanti eccezioni, dove magari un pistolino da nulla prevale con l’astuzia su contendenti ben più accreditati e certamente meglio attrezzati.

Più che della buona notizia delle cose minime, al credente o al semplice visitatore, il colossale albero di Natale narra di questioni legate allo sfarzo del potere. E lo sforzo di trasferirgli un sempreverde di tali dimensioni sotto casa, nonché la sua lenta inutile agonia, si sarebbero potuti evitare qualora Benedetto avesse osato, contro qualsiasi tradizione, dare maggior credito al suo stesso magistero in materia di ecologia.

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giovedì 17 novembre 2011

La pace dei sensi

















La Comunità
pastorale è la pace dei sensi. È il nirvana, un anticipo d’eterno (riposo). Attraente come un brodo caldo a ferragosto, è una nave da guerra dove ogni cosa funziona a dovere, se tutti stanno buoni buoni al proprio posto di combattimento, lasciando il comando a un solo uomo o forse a un uomo solo. Che con la scusa di dover stare al timone, troppo di rado si fa vedere sul ponte.

L’organizzazione è precisa. Tutto gira che è una meraviglia. Mansioni, funzioni, responsabilità più o meno di facciata. Ci sono gruppi in tutte le salse, programmi il più delle volte eccessivi e spazi extra-large per un’utenza sempre più ridotta nel numero. Il carrozzone cammina, l’oliatura è perfetta, sotto la regia di un Direttivo rigorosamente in clergy-man.

A ben guardare però, la Comunità pastorale – questa Comunità pastorale – dietro l'inevitabile immagine ottimistica che di sé vorrebbe offrire, nasconde un'indole novembrina, è giusta per il tempo dei morti. Il delirio di accentramento che la agita rischia di ridurre la res religiosa a tiepide pratiche cimiteriali: spazzare il vialetto, cambiare l’acqua ai fiori, lustrare la lapide. Quella di una comunità locale che non c’è più e alla quale si dovrebbe almeno intonare il requiem, se la vita cristiana si svuota di sguardi e si riduce per lo più a un privato, intimistico itinerario punteggiato qua e là di qualche devozione e fioretto.

In questo tempo feroce, di quanta cura ci sarebbe bisogno, di quanto ascolto, sostegno. “Vicinanza di case” – questo il senso etimologico del termine “parrocchia” – convivio spirituale: ecco cosa dovrebbe essere una comunità cristiana. Che prima ancora è comunità umana, di scambio vicendevole, di ricerca comune, di reciproco affetto. Oppure non è affatto ciò che pretende di essere.

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sabato 15 ottobre 2011

Piccoli miscredenti crescono

La pastorale cattolica, sempre molto preoccupata dei numeri, è perennemente alle prese con la sciamatura delle giovani generazioni, che ha inizio in genere dopo l’amministrazione della cresima, più o meno attorno alla terza media, e che si compie nei primi anni delle scuole superiori. Dopo questo tempo, in ambiente parrocchiale non resta di solito che un “resto di Israele” che ha l’aria di quello che sta a lì a domandarsi “Perché proprio a me?”, come fosse caduto preda di una brutta malattia. Ma non è di questa minoranza assoluta e perplessa che voglio parlare.

Impressiona invece l’indifferenza – per non dire l’ostilità – nei confronti del cattolicesimo e di tutto quello che lo rappresenta, manifestata da quanti han già deciso più o meno consapevolmente di rompere con il proprio ecclesiale passato prossimo.

Per rendersi conto della questione, basta farsi un giro tra i profili facebook e spulciare le info di giovanotti imberbi e signorine dal trucco improvvisamente pesante, che fino a ieri avevano affollato le aule di catechismo e servito messa cantata. Alla voce “orientamento religioso” non è raro che l’ex-chierichetto sottolinei graniticamente: “Ateo”.

Poveretto, come lo capisco! Con tutte le genuflessioni e gli inchini che gli toccava fare ad ogni minimo spostamento sull’altare, per anni ha soltanto messo a rischio la salute della propria colonna cervicale; mentre del gusto, della bellezza e soprattutto della libertà del vangelo non c’era ombra. Tanto che ora non se ne scorge traccia alcuna. E tutto quell’indottrinamento senz’anima propinato ad opera di anime bene intenzionate quanto devote alla causa del cattolicesimo, in lustri di cosiddetta formazione cristiana, ha ottenuto il solo scopo di farlo scappare a gambe levate appena possibile, il più lontano che potesse.

E così, appeso al chiodo il turibolo ormai spento, quel che prende forma nel cuore e nella mente del povero ateo-cresimato è una rivolta feroce verso tutto quello che si riferisce alla religione; un tuffo disperato in un privato abitato da idoli, qualche volta persino più innocenti del dio buono ma perennemente accigliato, adirato col mondo e nemico del corpo, che gli hanno insegnato ad amare ma soprattutto a temere. La cui immagine ambivalente ha finito per allontanarlo, forse irrimediabilmente, da una duratura e liberante ricerca del volto di Dio in Gesù di Nazaret.

Il vangelo però aspetterà, agli incroci della vita, come sempre. Non è faccenda che riguardi pochi, è cosa di molti, è pane per tutti. Sparso su cammini che nessuno sa, portato lì da qualche testimone magari inconsapevole più che dagli zelanti redattori dei catechismi ufficiali, il suo seme di umanità cresce per farsi albero carico dei frutti della giustizia e della pace, della bellezza e della compassione. Sotto quelle fronde chiunque lo voglia potrà tornare e ristorarsi, quando per lui il tempo sia maturo.

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lunedì 19 settembre 2011

Il peccato contro la speranza

Il peccato contro la speranza

di Arnaldo DeVidi

in “Koinonia-Forum” n. 273 del 9 settembre 2011


Gli indios ci insegnano. Essi errano, come tutte le persone di tutte le etnie (non dobbiamo mitizzarli come fece J.J. Rousseau); ma ci insegnano che sull’errore di un individuo pesa la responsabilità di tutti. Quando un indio commette un crimine, il consiglio degli anziani lo convoca e gli domanda: “Fratello, perché hai agito così? Dov’è che abbiamo sbagliato?”.

Penso che il consiglio degli anziani della Chiesa dovrebbe convocare il mondo di oggi e domandargli: “Dove abbiamo sbagliato perché tu, mondo, sia caduto così in basso, egoista, spietato, senza valori né giustizia?”. Mi perseguita questo domanda: dove la Chiesa ha sbagliato?

Credo che la Chiesa gerarchica abbia peccato contro la speranza. Ha perduto la sua identità di essere sale e lievito. Ha bruciato la primavera che Giovanni XXIII aveva interpretato così: “Nel presente momento storico la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani, che, per opera degli uomini e per lo più al di là della loro stessa aspettativa, si svolgono verso il compimento di disegni superiori e inattesi”. Paolo VI, seppure più cauto, aveva ribadito: “Lo sappia il mondo: la Chiesa guarda ad esso con profonda comprensione, con sincera ammirazione e con schietto proposito non di conquistarlo, ma di valorizzarlo, non di condannarlo, ma di confortarlo e di salvarlo”. Il frutto maturo dello spirito dei due papi è stato il Concilio Vaticano II e, in particolare, la Gaudium et Spes.

Ma poi il Concilio è stato “corretto” o, più esattamente, tradito. Sono stati altri due papi, non italiani, Wojtyla e Ratzinger, a innestare la retromarcia e riportare la Chiesa nell’alveo della “cristianità cattolica italiana”! C’è stato il ritorno al monolitismo e alla “grande disciplina”, usando parole verniciate di fresco sui vecchi concetti (cf. la nuova evangelizzazione). Con la paura dell’inculturazione, le teologie latino-americane, africane e asiatiche sono state condannate o diffidate. Forse papa Wojtyla alla sua elezione era un’incognita, non essendo ancora noto; ma papa Ratzinger è stato scelto con conoscenza di causa: si sapeva che era un templare che avrebbe rafforzato la crociata della “restaurazione”. Aveva detto da cardinale: “Se per restaurazione intendiamo la ricerca di un nuovo equilibrio dopo le esagerazioni di una apertura indiscriminata al mondo, dopo le interpretazioni troppo positive di un mondo agnostico e ateo, ebbene, questa restaurazione è auspicabile ed è del resto già in atto”.

Il mondo, stigmatizzato, non amato né rispettato, è andato sfasciandosi. Nella torre d’avorio del suo tomismo dogmatico, papa Benedetto, detentore della verità, vuole aiutare chi sta nella menzogna.
Per compiere questa missione, detta le scelte nei campi della politica e della morale; ringrazia Dio del potere e dei privilegi che la Chiesa detiene in vari paesi, adoperandosi per aumentarli.

Da parte sua, la Chiesa italiana, assomigliando ai politici più biechi, è riuscita a passare incolume coi suoi privilegi nell’ultima manovra del governo italiano, quando poteva riscattarsi nel cammino della sobrietà e del civismo.

A questo punto, lo dico piangendo, la Chiesa che non è il fine, ma il mezzo per la realizzazione del Regno, diventa molto relativa, come uno strumento spuntato. Io ringrazio i cinesi per aver esorcizzato il mio teismo e monoteismo escludente, per avermi aperto al simbolico e alla categoria dell’umano. Mi hanno così guarito dal sogno di un messianismo mondiale made in Vatican.

In forza della fede, con i cristiani, io dico che Gesù rappresenta la Via da percorrere come pellegrini della Libertà, della Pace e della Verità. Questo mi basta.

Arnaldo DeVidi

Abaetetuba, Settembre 2011, Brasile

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domenica 21 agosto 2011

I viaggi del papa e i viaggi di Gesù

Un intervento del teologo spagnolo p. José Maria Castillo - autore, tra l'altro, de: "Chiesa e diritti umani" - sul viaggio di Benedetto XVI a Madrid in occasione della GMG 2011.

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I viaggi del papa e i viaggi di Gesù

Senza dubbio, molta gente penserà che è uno sproposito mettere in relazione i viaggi del papa con i viaggi di Gesú. Venti secoli separano gli uni dagli altri. E quasi tutte le circostanze, che circondarono e circondano gli uni e gli altri sono tanto diverse, che metterli in relazione non può avere altra finalità che concludere dicendo che quei viaggi non hanno nulla a che vedere con questi.

Questo significa che, in fin dei conti e se tutto questo è cosí, quello che qui si pretenderebbe fare sarebbe semplicemente togliere prestigio al papa. Naturalmente, a chi pensa come ho appena detto non gli mancano ragioni per farlo. Ma anche dico che, se il solo titolo di questo articolo rende nervose alcune persone, forse si possa pensare ragionevolmente che, almeno all’inizio, nessuno dovrebbe essere prevenuto sul fatto che, a proposito del viaggio del papa, si dica qualcosa di come, perché, per quale motivo e con chi viaggiava Gesú.

Non diciamo che il papa è il vicario di Cristo in terra? Il dizionario dice che vicario è colui “che fa le veci, ha potere e facoltà di un altro o lo rappresenta”. Poi - dico io -, se il papa rappresenta Gesú, fatte salve tutte le differenze, qualcosa avranno a che vedere questi viaggi con quelli. E così è.

Gesú viaggiava per parlare di Dio. E per questo viene il papa a Madrid.
Gesú viaggiava per cercare i lontani da Dio. E per questo si è organizzata la Giornata Mondiale della Gioventù, giacché ci sono ragioni per pensare che i giovani sono uno dei settori della popolazione più lontani dalla fede in Dio.
Gesú viaggiava per consolare coloro che soffrono. E non c’è dubbio che la visita del papa servirà di consolazione a non poche persone afflitte.

Tutto questo è certo. Però è anche vero che Gesú viaggiava in modo che le “moltitudini”, che accorrevano a lui per ascoltarlo, erano persone che i vangeli designano normalmente mediante la parola greca “óchlos”, che appare 170 volte nei vangeli. E che designa, non solo una quantità grande di gente, ma anche gente ignorante, di condizione sociale umile e che era considerata dalle persone pie come “una massa che non conosce la legge religiosa ed è maledetta”, come dicevano le persone religiose più osservanti (Gv 7, 49).

Se gli autori dei vangeli disponevano di altre parole greche (“démos”, “laòs”, “éthnos”...) per designare il popolo che accorreva a Gesú, perché normalmente utilizzano la parola più dispregiativa che avevano a disposizione? Quale fascino strano aveva quell’itinerante instancabile che fu Gesú?

Nel farmi queste domande, non pretendo di mettere in questione né il costo economico che avrà il viaggio del papa, né quello che si attendono quelli che hanno organizzato questo viaggio, né quello che cercano quelli che viaggeranno fino a Madrid per ascoltarlo.
Io mi chiedo qualcosa che è molto più grave, più urgente, più forte: stando come stanno le cose nei paesi del corno d’Africa, dove centomila bambini muoiono di fame e di carestia, e in attesa che i paesi più potenti del mondo non pongano rimedio a questa situazione tanto angosciosa, perché il papa non va, almeno al momento, in Somalia e Kenia, e resta lí, nei campi dei rifugiati, fino a che non si ponga un rimedio efficace per questa situazione di tanti esseri innocenti che si dibattono tra la vita e la morte?
Se ci sono fondate speranze che un gesto così del papa sarebbe uno scuotere la coscienza di tanti multimilionari che potrebbero alleviare il presente stato di cose, perché il papa non lo fa? Non è più necessario, più importante, più umano, più evangelico, in questo drammatico momento, andare con i poveri moribondi invece che entrare trionfante nell’accoglienza da apoteosi che gli riserveranno a Madrid?

E vedo che sto per mettere le mani avanti. Poiché molti sono quelli che diranno che tutto questo è demagogia a buon mercato, utopia inutile, etc, etc. Però, anche a rischio che mi si dica in faccia tutto questo, e molto di più, non tralascerò di dire quello che sento, davanti ad una necessità così patente e che tanto grida verso il cielo. Anzi, se lo dico, non è per attaccare la chiesa o il papa. Tutto il contrario. Lo dico perché sono fermamente convinto della forza che hanno la chiesa ed il papa per smuovere i cuori e le coscienze quando sono in gioco la vita o la morte di tanti essere deboli, i più indifesi ed abbandonati.

Naturalmente, che il papa si riunisca pure con i giovani e smuova le loro coscienze, indichi loro il cammino del Vangelo e faccia scoprire loro orizzonti di umanità. Però, per favore, quello che è primario è primario. E, senza alcun dubbio, la cosa più urgente, in questo momento, è salvare la vita di tante persone che sono i “nessuno” di questo mondo.

E termino affermando che questo non è solo per il papa ed vescovi. E’ per tutti. Per me innanzitutto. Perché tutti abbiamo il coraggio di affrontare una situazione che non ammette indugio.

José Maria Castillo

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venerdì 19 agosto 2011

Vacche magre e otto per mille




















Almeno in tempi di crisi economica, l'Istituzione ecclesiastica può far finta di nulla sulla questione dell'Otto per mille?

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Chiesa, tre metri sopra l’Irpef
di Marco Politi

in “il Fatto Quotidiano” del 18 agosto 2011

La Chiesa italiana è chiamata a dare il suo contributo per il risanamento del deficit nazionale. In una fase di tagli pesantissimi generalizzati, chi è percettore di un flusso ingente di finanziamenti pubblici non può sentirsi “al di sopra delle parti”. Partecipare è un dovere morale.
Nei tempi antichi, in casi d’invasione e di assedi, si fondevano i calici e gli ori dei templi per finanziare la difesa della città o riscattare i prigionieri. Altrettanto vale oggi, quando il nemico – più insidioso e distruttivo – è annidato nelle finanze pubbliche e può essere debellato soltanto se veramente tutti, e non solo le famiglie a reddito fisso, partecipano ai sacrifici.

Sbaglierebbe la gerarchia ecclesiastica a scrollarsi di dosso la richiesta, etichettandola come anticlericale o animata da spirito antireligioso. È vero il contrario. Il dovere di mettere mano alle proprie disponibilità nasce (dovrebbe nascere) da una considerazione anche religiosa del “bene comune” e dello stesso destino dello stato sociale. In Grecia la Chiesa ortodossa sta valutando, con il governo, di sostenere il bilancio pubblico vendendo parte del suo patrimonio immobiliare. Può la Chiesa italiana rifiutarsi di affrontare nella fase attuale la questione dell’8 per mille, che pesa sul bilancio dello stato per oltre mille milioni?

Dirò subito che nell’ottica di uno stato sociale e democratico, che favorisce lo sviluppo della personalità dei cittadini nella dimensione culturale, valoriale e associativa, anche sostenere l’espressione comunitaria di una fede e favorire la costruzione di una chiesa, una sinagoga o una moschea è un elemento di civiltà.
Il fatto è che in Italia il sistema dell’8 per mille, che concede democraticamente a qualsiasi cittadino di devolvere una quota dell’Irpef alla confessione religiosa di sua scelta o allo Stato per fini umanitari, è nato sulle basi di un imbroglio. È evidente che il cittadino, che non vuole usufruire della facoltà di devolvere la sua quota a un destinatario preciso, intende lasciare alla piena disponibilità dello Stato la sua Irpef. Così succede in Spagna , che pure ha copiato concettualmente il sistema italiano. La truffa-Tremonti avvenuta nel 1985, è che le somme non toccate – le quote di Irpef dei cittadini che non si sono “espressi” – vengono nuovamente suddivise in base ai “voti” di quanti hanno manifestato la loro preferenza nella dichiarazione dei redditi. Con il risultato che le “preferenze” per le Chiesa cattolica, pari a circa un terzo delle dichiarazioni, attraverso il riconteggio arrivano a qualcosa come l’87 per cento e in tal modo l’istituzione ecclesiastica giunge incassare circa un miliardo di euro.

L’irrazionalità di questo meccanismo è aggravata da molteplici fattori.
Anzitutto il gettito dell’8 per mille è aumentato esponenzialmente a un ritmo tale che ha non più nessuna relazione con la struttura della Chiesa cattolica. Il numero dei sacerdoti in Italia va infatti sistematicamente calando. Nel 1978, al momento dell’elezione di papa Wojtyla, erano oltre quarantunmila, oggi sono scesi a trentaduemila e nel 2013 dovrebbero ridursi a ventottomila secondo uno studio del sociologo cattolico Diotallevi (insieme a Stefano Molina). Insomma la Chiesa italiana più si riduce e più incassa in finanziamenti statali.

La seconda anomalia è rappresentata dal fatto che il governo Berlusconi ha rallentato l’accesso al sistema dell’8 per mille di altre confessioni in modo da non scalfire la parte del leone che arriva alla Cei. Da anni l’Unione buddista, i Testimoni di Geova, la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, l’Unione induista, l’Esarcato ortodosso e la Chiesa apostolica – che pure hanno firmato le intese con lo Stato italiano – attendono la ratifica del parlamento. Solo per le ultime due è arrivata finora l’approvazione del Senato, ma manca quella della Camera. L’“inerzia” non è casuale.

Ogni “voto” a una nuova confessione, toglie fondi alla Chiesa cattolica. È bastato negli anni scorsiche ci fosse un piccolissimo incremento per i Valdesi e sono stati milioni persi per la Cei. Dunque il motto è “non disturbare le gerarchie ecclesiastiche”.

Terzo scandalo è che lo Stato non metta un’indicazione di scopo alle “preferenze” per la quota statale destinata a fini umanitari. Se Berlusconi avesse detto che andava alla ricostruzione dell’Aquila, vi sarebbero stati milioni di “voti”. Ma proprio questo non si voleva. La Chiesa ha la pretesa che lo Stato non proponga nulla.

Questo è il quadro. Che cosa si può fare immediatamente?
La via maestra, la più dignitosa per la Chiesa, è che la Cei nella seduta del suo prossimo Consiglio permanente a settembre annunci di lasciare allo Stato una quota cospicua dei finanziamenti alla luce del fatto che vi sono stati tagli pesanti in tutti ministeri e negli enti locali con riflessi durissimi sulla vita dei cittadini. La Cei insieme alle diocesi in questi anni, con progetti di credito a favore delle famiglie deboli, ha fatto molto. Abbia il coraggio di correggere la stortura del sistema.

Il governo a sua volta, a norma dell’art. 49 della legge che ha istituito l’8 per mille nel 1985, convochi la commissione paritetica con l’episcopato per rivedere – come è espressamente previsto – la somma del gettito.

Il governo indichi chiaramente lo scopo pubblico della quota a lui riservata per coinvolgere i cittadini su obiettivi precisi e cessi l’andazzo vergognoso per cui milioni della “quota statale” tornano a destinatari ecclesiastici con interventi a pioggia come accade da anni.

Si abolisca, infine, il doppio conteggio.

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domenica 10 luglio 2011

"Ricorda il giorno di shabbàt"

Oggi le letture della liturgia ambrosiana sembrano avercela con il mondo. “La carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito ha desideri contrari alla carne” – ammonisce Paolo nella lettera ai Galati, trasferendo germi di una certa visione dualistica dell’uomo, che si ritrova a combattere contro se stesso, irrimediabilmente diviso in spirito e carne.
Ed evidentemente Paolo non fa mistero di che cosa intenda prima di tutto quando parla di “carne”. E il pensiero cristiano successivo cammina nel solco sessuofobico tracciato da lui, e da altri ancor prima di lui, fuori dalla tradizione ebraico-cristiana.
Ma con buona pace di Paolo di Tarso, è possibile l’esperienza di una carne che è carne e spirito insieme. Mentre, d'altro canto, qualche volta ci si imbatte in proposte spirituali di nessun respiro e per questo lontane dal permettere autentiche esperienze spirituali.
Possiamo trovarci di fronte a modi assolutamente senz'anima di parlare di spirito; mentre ci sono parole profondamente spirituali per descrivere la “carne”. Sono le parole dell’amore, del semplice, indiviso amore umano. Come, ad esempio, quelle poetiche che lo scrittore Erri De Luca usa per narrare il primo incontro fra i progenitori, secondo il racconto mitico di Genesi. Qui il dualismo fra carne e spirito che genera angoscia nel cuore dell’uomo e della donna è ancora di là da venire, l'amore è integro e tutta intera l’esperienza umana trasuda di bellezza e autentica spiritualità, proprio perché ancora così prossima alla propria Origine.

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da: Erri De Luca - E disse (Feltrinelli 2011)

Quelle parole avevano fatto l’universo dopo le prime sillabe di annuncio: “Ieì or”, sarà luce. In ebraico quattro vocali e una consonante avevano acceso le notti e illuminato il giorno. L’universo brulicò di scintille. Poi quelle parole avevano chiamato il mondo a farsi, durante i sei giorni di creazione.

Era materia uscita dalla voce della divinità, era sostanza di bellezza perché scaturita da parole. Il monte su cui si fissava la dettatura della divinità era un’arsura rimbombante, dall’alto calava la luce degli inizi.

“Ricorda il giorno di shabbàt”: certo che mi ricordo, lo aspetto una settimana intera, pensò qualcuno, indolenzito ancora dai turni di fatica dell’Egitto e incredulo di trovarsi liberato dai lavori forzati.

La divinità non si riferiva a quello. Intendeva: ricorda il primo giorno di shabbàt del mondo, quando Elohìm cessò la sua manifattura. Come poterlo ricordare? La cellula di partenza della specie umana era presente. Quei due primi, Adàm e Havà, hanno ascoltato l’improvviso silenzio dell’arresto. Ritorna col ricordo allo stupore e allo sgomento. Era il giorno sesto del creato ma per loro era il giorno uno. Venne sera e silenzio, si spalancò la notte e si sdraiarono sotto. Non sapevano se sarebbe tornato un altro giorno e la sua luce. Tutto era nuovo per loro e tutto era già apparecchiato intorno. Seppero che ogni cosa li aveva preceduti, la vita intera esisteva già prima di loro due. Seppero in quel primo buio di essere degli ospiti.

Era finita l’opera, ma a completarla e darle perfezione ci voleva la settima, che in musica si chiama dominante. Il mondo era stato creato con un arrangiamento musicale, le sue regole rispondono alla combinazione di tempi, toni, diesis e bemolle. La coppia ultima nata intendeva le più vaste frequenze, il basso continuo del creato.

Quella sera il mondo si interruppe, come un principio di sordità all’orecchio. Succede anche a chi passa alla penombra da una forte luce. Lentamente distinsero il silenzio del primo shabbàt del mondo. Era bonaccia a mare, la fogliuzza che non tremola più, il vapore che sale dritto dalle narici dei bufali, i loro occhi tranquilli: anche per gli animali quello era il primo sabato, ma loro lo aspettavano.

Ricorda la prima notte dei nostri primi due, si mischiava l’amore allo spavento, la risposta insieme alla domanda. Erano nudi, si protessero abbracciandosi i corpi, la testa nella spalla dell’altro nell’incavo accogliente tra la scapola e il collo. Scoprivano l’incastro che permette a due corpi di fare l’unità.

Fu la prima scoperta della conoscenza, senza la distinzione ancora del bene e del male. Quella prima notte profumava di creato spento. L’amore accelerava l’esperienza, faceva succedere tutto in una notte. E che notte, la prima: non erano stati bambini, l’amore fu il primo dei giochi. Passarono dalle risate al solletico, alla concentrazione di frugarsi. Mentre si strofinavano felici si urtarono le labbra. Stupiti si scansarono, poi le riaccostarono. Si chiusero gli occhi da soli, la vista e tutti i sensi accorsero alla bocca. Nacque per accidente allegro il primo bacio. Al termine del gioco erano arrivati al bacio mille.

Ricorda il giorno di sabato, iniziato la sera del sesto, prolungato nell’insonnia amorosa, nel breve sonno sazio, nel risveglio a giorno canterino. Quello è shabbàt, di quello avrai ricordo. Le donne del Sinai guardarono i mariti, gli uomini si voltarono verso di loro, chiamati da quegli occhi. Che giorno è oggi? Facciamo che è già il sesto, che stasera è shabbàt.

Ricorda la felicità del mattino seguente, la luce sulle palpebre, il risveglio. Era il giorno perfetto, il punto fermo messo a firma del capolavoro. Shabbàt, la cessazione, un suono secco di frutto caduto, il palmo di una mano che si chiude nel palmo dell’altra.

Non era invito a fare gite, scampagnate, era il rumore di un interruttore generale. Neanche luce e fuoco erano ammessi. Smetti, è shabbàt, non è tuo, è della terra, che resti per un giorno senza passi, sgombera di te. Non farai e non farai fare a nessuno al posto tuo: né a tuo figlio e a tua figlia, né al tuo servo e alla serva, né al bestiame. Nemmeno allo straniero che sta nelle tue porte, il sabato è uguaglianza.

Tu leggi, studia, canta, prega, gioca, gusta la tavola e la compagnia. Scrivere? No, neppure quello, ma se sei accanito di scrittura puoi farla sulla sabbia e sulla polvere. Solo il soccorso è ammesso per accorrere a un grido.

“Non farai per te alcuna opera”: questo ti servirà a ricordare il primo shabbàt del mondo, il corpo t’insegnerà, smettendo. Non è il contrario di fare, è l’esecuzione di un ricordo, di quando senza annuncio né segno si fermò la creazione del cielo e della terra. Non che fosse finita l’opera: il rinnovo continua. Si era fermata la musica: le bestie quella notte guardarono in su, i nostri due fecero lo stesso. “Il cielo è il mio sedile, la terra è il mio sgabello,” fa dire a Isaia. Cercavano con gli occhi il posto dove stava il musicista.

(pp. 48-52)

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giovedì 30 giugno 2011

Ma noi occupiamoci del vangelo












La questione della successione a Tettamanzi mi lascia un po' interdetto. Se ne leggono di tutti i colori su Angelo Scola ancor prima d'averlo sentito parlare da vescovo di Milano. "Dai frutti li riconoscerete"... Diamogli un po' di tempo. Se verrà e inizierà subito a trafficare a destra e a manca non sarà un buon segnale.

Vito Mancuso su Repubblica dice bene: c'è bisogno di ascolto. Saprà il nuovo arcivescovo saper ascoltare?
Se è per questo, un gruppo di credenti della mia comunità qualche tempo fa scrisse una lettera al cardinale Tettamanzi, manifestando perplessità circa le modalità di costituzione della neonata Comunità pastorale che ha coinvolto anche la nostra parrocchia... Ebbene, dal buon Dionigi nemmeno due righe di risposta, sempre che la missiva sia giunta a destinazione. Ad ogni modo questo è accaduto: cristiani scrivono al loro vescovo e questi non li degna di una parola, tutto cade nel vuoto, o rimbalza come contro un muro di gomma. Che dire, dunque, a proposito di ascolto?

Scola o chi per lui, siamo sempre col naso all'insù ad aspettare qualche cosa che ci piova addosso. "Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo"? E poi lamentiamo l'anacronismo di talune prassi ecclesiastiche, immutabili dal medioevo a questa parte e che lasciano a pochi decidere tutto sulla testa della gente, senza la minima possibilità per le persone di esprimere un parere in questioni importanti per la vita della Chiesa. Ma se la gente semplice non viene minimamente interpellata quando si tratta di costituire una comunità pastorale (ad esempio: a nessun monsignore interesserebbe sapere che cosa ne pensi il "popolo di Dio" di dover camminare con questa piuttosto che con quella parrocchia), come volete che l'opinione della stragrande maggioranza dei cattolici di una diocesi possa contare qualche cosa nella nomina del vescovo?

Forse dovremmo smetterla di guardare il cielo. Dovremmo non parlare più del nuovo vescovo, o di quello antico. Quello che dovremmo fare è invertire la direzione del nostra attenzione e fissare lo sguardo verso il basso. Distoglierlo dalle porpore e dagli onori degli ecclesiastici di professione per rivolgerlo al Crocifisso presente nella comune storia degli uomini.

Ha ragione quel prete che in questi giorni si esprime così: il Vaticano "doveva controbilanciare il sindaco di sinistra. Per loro tutto si gioca sul potere. Ma noi occupiamoci del vangelo e dei più deboli della terra . Poi, ancora una volta, affidiamo a Dio nella preghiera e nell'impegno i piccoli semi che gettiamo nel solco del quotidiano".

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sabato 4 giugno 2011

Come nel medioevo

A Milano han fatto il sindaco. La maggioranza dei milanesi ha scelto Giuliano Pisapia. Fra qualche settimana arriverà il nuovo vescovo. Chi lo sceglie? I credenti della diocesi ambrosiana, manco a dirlo, non hanno nessuna voce in merito. Tutto gli piove dal cielo: la comunità pastorale, il nuovo parroco, figuriamoci il vescovo! La Chiesa cattolica, si sa, non è certo incline ai cambiamenti. Ma una piccola riforma di una prassi medievale, nel terzo millennio, non sarebbe quanto meno auspicabile?
A tal proposito ricevo questo interessante articolo che desidero rilanciare, prima che il gallo schiatti.

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Chiesa monarchia feudale
di Piero Stefani


Nel 2011 Milano assisterà al rinnovo di due cariche. Una è già avvenuta con l’elezione di Giuliano Pisapia a sindaco della città: un fatto dalla valenza politica rilevante che, con ogni probabilità, sarà assunto nei libri di storia come svolta irreversibile nel declino politico dell’attuale presidente del consiglio. A seguito di questo esito elettorale si stanno infatti mettendo in moto dinamiche che diffondono, a vasto raggio, la convinzione secondo la quale Berlusconi ha imboccato, senza chance di recupero, il viale del tramonto. Pure se, ipoteticamente, non fosse così, l’esistenza di questa vasta percezione contribuisce in modo significativo a far sì che sia effettivamente così. Tutt’altro il discorso su quanto avverrà dopo: qui l’incertezza regna sovrana.

L’altra carica da rinnovare è quella di arcivescovo. Nel 2009, il card. Tettamanzi ha dato le dimissioni per raggiunti limiti di età. Come è ormai prassi, l’incarico gli è stato rinnovato per due anni. Anche questi ultimi sono ormai scaduti. Da mesi fioccano le previsioni sul successore. Se la nomina, non l’ingresso, fosse avvenuta prima delle elezioni amministrative, difficilmente qualcuno avrebbe ipotizzato una volontà da parte della Chiesa cattolica di influire sul risultato elettorale. È meno vero il contrario. Specie se la scelta, come molti prevedono, cadrà infine sul card. Scola, sarà arduo scacciare il sospetto secondo cui una delle variabili che ha fatto propendere la bilancia dalla parte dell’attuale patriarca di Venezia sia stata la presenza di Pisapia a palazzo Marino. Si tratterebbe di un sospetto tutt’altro che infondato, diretto a screditare ulteriormente l’immagine che la Chiesa cattolica offre di se stessa. Ancora una volta si è sbagliata, quanto meno, la tempistica. Anche se fatta con debito anticipo, una nomina come quella di Scola sarebbe stata inevitabilmente letta come una vittoria di CL, ma lo stile sarebbe stato meno compromesso. Se poi, ora, prevalesse un altro candidato, anche in questo caso sarebbe, ugualmente, dietro l’angolo il sospetto che la sua nomina sia stata influenzata da una variabile politica.

Legato al confronto tra l’elezione del sindaco di Milano e la nomina del futuro arcivescovo vi è, comunque, un aspetto più profondo di quello connesso alla cronaca politica. Dopo molti anni la sinistra riprenderà a governare Milano in virtù di un consenso che le viene dalla maggior parte dei cittadini. Con tutti i suoi limiti, il ricorso alle urne evidenzia, in modo efficace, le scelte della cittadinanza. Nulla di equivalente in seno alla diocesi ambrosiana. Qui si è in attesa di una nomina che viene dall’alto senza che sia possibile influenzarla in alcun modo.

Quando cambia un vescovo, i fedeli devono solo aspettare la decisione di Roma. Il nunzio indaga, consulta, propone terne (ma non sempre, per Milano non è stata fatta), infine consegna il plico al papa. Poi tutto procedere nelle stanze vaticane, finché giunge l’annuncio, secondo tempi e modi lasciati alla discrezione del pontefice. Il sistema di nomina dall’alto può avere esiti anche molto positivi. In base a esso, negli ultimi giorni del 1979, Carlo Maria Martini fu nominato, a sorpresa, vescovo di Milano. D’altra parte se, in quell’occasione, si fosse dato libero corso alle dinamiche interne alla diocesi ambrosiana, nessuno si sarebbe stupito se CL fosse riuscita a far vincere un suo candidato. Eppure il verticismo monarchico in base al quale si attende un pastore senza consultare le sue future pecore, continua a essere espressione di una Chiesa retta dall’equivoco di spacciare per tradizione irreformabile l’arroccamento attorno ad alcune specifiche fasi della propria storia.

Il fatto che, fino all’epoca medievale, il vescovo fosse eletto da clero e popolo, lungi dall’evitare abusi, spesso li favorì. Inserita in un sistema feudale, questa prassi garantì il predominio di alcune grandi famiglie. Per mutare clima si imboccò la via delle riforme. Nel caso della nomina del vescovo di Roma, dal 1059 essa è, per esempio, affidata ai cardinali. I nostri tempi sono lontanissimi dal Medioevo. Ogni riforma va a sua volta riformata. Avviare processi grazie ai quali i fedeli di una diocesi abbiano parte attiva nella scelta del loro pastore è opzione che solo una forma miope di gestione del potere si rifiuta di prendere in considerazione.

Nel 374 Ambrogio, governatore della provincia romana dell’Emilia-Liguria con sede a Milano, fu eletto, contro il suo parere, vescovo della città a furor di popolo. Ciò avvenne quando Ambrogio non era ancora battezzato (pur essendo già cristiano). Sulla scorta di questo precedente, qualche autore surrealista potrebbe scrivere una piéce teatrale al termine della quale Giuliano Pisapia siede a capo della diocesi ambrosiana. Non auspichiamo tanto. Ci basterebbe che si traessero le debite conseguenze dal fatto che la struttura monarchica e lo spirito feudale, lungi dal far parte dell’intima natura della Chiesa, ne rappresentano solo una fase storica avviata, da gran tempo, sul viale del tramonto. Tuttavia proprio la prolungata dilazione del crepuscolo, fa sì che essa sia ancora in grado di gettare lunghe ombre sul suolo ecclesiale.

Piero Stefani

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mercoledì 25 maggio 2011

Chiesuola




















La Chiesa cattolica è poca roba quando diventa chiesuola, quando si chiude in autocontemplazione del proprio ombelico, ritenendolo il centro dell'universo. Quando non è capace e non vuole intraprendere percorsi nuovi e spaccia per novità gli aspetti peggiori della propria bimillenaria tradizione.

Così ultimamente si sente parlare molto di "corresponsabilità" dei laici. Già il fatto che se ne parli la dice lunga. Da sempre nella Chiesa cattolica i laici valgono come il due di picche allorché si tratta di questioni significative. Ma i preti, formati ancora come previsto dal concilio di Trento, sono sempre più anziani e sempre meno numerosi. E allora lo slogan ricorrente diventa: Avanti i laici!
Poi vai a vedere e trovi paletti da ogni parte. Si tratta giusto di distribuire la comunione durante le messe (sempre che non sia presente il diacono) o andare a fare gli auguri natalizi nelle case dei parrocchiani, dove per ragioni demografiche il parroco o il vicario ormai non ce la fanno ad arrivare. Le decisioni alla fine della fiera vengono prese sempre all'interno della solita cerchia di chierici, maschi, votati al celibato.

Gesù però, checché se ne dica, amava poco parlare di chiesa e difficilmente deve aver avuto in mente un'idea di chiesa così come oggi la concepiamo, ancora troppo somigliante a una struttura imperiale piuttosto che a una comunità sororale e fraterna. Preferiva piuttosto parlare di "regno di Dio". Ed è interessante notare come l'espressione "regno di Dio" o "regno dei cieli" ricorra per ben centoventidue volte nei vangeli canonici. E la parola "chiesa"? Una volta sola, ahimè (Mt 16,18).

Così, quando la Chiesa si fa chiesuola, occorre sempre alzare lo sguardo a contemplare la incommensurabile vastità del regno. Che abbraccia l'umanità tutta e viene edificato da tutti coloro che operano per il bene comune, per la giustizia, per la pace. La sua realizzazione, grazie al cielo, non ha nulla a che spartire con la gestione del potere, nemmeno con quella del potere religioso; e soprattutto prescinde dalle piccinerie degli uomini, persino da quelle degli uomini di chiesa.

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sabato 7 maggio 2011

La messa è finita















La messa è finita.
La gente assonnata sciama verso la cena.
Una coppia di zingari suona al citofono dell’abitazione del prete, attigua alla chiesa.

Dal balcone qualcuno si affaccia. “Che cosa volete?”. Il tono è feroce.
La donna-bambina abbassa lo sguardo.
Il suo compagno invece risponde: “Il prete”.
“Non c’è: andate via”.
“Perché ti arrabbi?” – domanda l’uomo di sotto.

La messa è finita.
La gente sempre più assonnata ormai se n’è andata.
La giovane coppia di zingari si allontana dal sagrato, lanciando in aria una maledizione.

Poco prima, durante la predica, parole dello spessore del vento ricordavano ai sonnolenti astanti il compito soave di dover essere testimoni della gioia del Risorto.

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lunedì 2 maggio 2011

I dieci comandamenti

Fra le pagine di un volume acquistato circa quindici anni fa, ritrovo un foglietto sgualcito, fotocopia della pagina di un altro libro. L'autore di quest'ultimo è Anselm Grün, monaco benedettino.
Il titolo è "Come vincere nelle sconfitte". La fotocopia è quella della pagina 136, dove viene stilato un inconsueto decalogo.

1) Non ascoltare le voci della tua infanzia, perché sono spazzatura! Cristo dice: sono io la tua forza, il tuo coraggio, la tua legittimazione.


2) Distaccati dalle radici del tuo rigorismo, dei tuoi ideali troppo elevati, del tuo autolesionismo! Cristo dice: gloriati! Non sottovalutarti! Cerca di essere completamente te stesso.


3) Prendi conoscenza della tua felicità! Accettala! Sii grato per questo! Cristo dice:abbandona ciò che hai alle spalle, protenditi verso ciò che ti sta dinanzi!


4) Affidati alla tua voce interiore! Cristo dice: trasformati nell’immagine dite che io porto in me!


5) Segui il tuo sogno! Cristo dice: conserva i tuoi sogni, impara a viverli.


6) Vivi la traccia della gioia! Cristo dice: il bambino che sta in te vuole vivere.


7) Abbi l’ardire di vivere i tuoi doni,anche quando non ti senti perfetto!
Cristo dice: entra sulla scena della tua vita con le scarpe slacciate e non farti paralizzare dalle tue paure.


8) Vivi l’attimo presente! Cristo dice: anch’io voglio essere dove sei tu!


9) Di’ sì a te stesso!
Cristo dice: la mia immagine è riflessa sul tuo volto! Sono io a darti il volto che hai.


10) Vivi la tua creatività Cristo dice: tu sei unico!


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giovedì 21 aprile 2011

Collocazione provvisoria

Da bambino ero solito visitare la tomba di una vecchia prozia, di cui per altro non avevo alcuna memoria.
Sulla piccola lapide campeggiava un'abbreviazione che da sola bastava a dare il senso del risparmio: "PROVV". "Vuol dire provvisorio" - suggeriva mio padre.

Il tempo passava, ma quella specie di avviso di lavori in corso a beneficio del sempre meno affranto visitatore, restava lì, suscitando un certo imbarazzo e qualche composto sorriso di compatimento. Qualcuno sussurrava che i parenti stretti non avessero abbastanza mezzi o persino affetto per una definitiva sistemazione della fossa.

Con gli anni nessuno fece probabilmente più caso alla vecchia piccola lapide provvisoria. Nella generale indifferenza, finì col divenire definitiva, come la gramigna che prosperava indisturbata lì attorno. O i garofani di plastica rosa lasciati ad ingiallire.


Perlomeno sino al lunedì in cui i resti riesumati della defunta furono solennemente traslati nell'ossario del medesimo cimitero.

Quel giorno, i parsimoniosi parenti della prozia - almeno coloro che nel frattempo non fossero già a loro volta finiti sotto una lapide provvisoria - cantarono vittoria. Senza più temere il biasimo di nessuno, videro premiata dalle circostanze la loro fermezza nel sottolineare, in tutti quegli anni, la definitiva provvisorietà della morte.


Buona Pasqua.


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Collocazione provvisoria
Tonino Bello, vescovo


C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato alla morte di Cristo:

“Da mezzogiorno al le tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra”.

Forse è la frase più scura di tutta la Bibbia.

Per me è una delle più luminose. Proprio per quelle riduzioni di orario che stringono, come due paletti invalicabili, il tempo in cui è concesso al buio di infierire sulla terra.

Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane. Ecco le saracinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra. Ecco le barriere entro cui si consumano tutte le agonie dei figli dell’uomo”.

“Collocazione provvisoria”. Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce.

La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo.

Coraggio, allora: la tua croce, anche se durasse tutta la vita, è sempre “collocazione provvisoria”.

Il Calvario, dove essa è piantata, non è zona residenziale.

E il terreno di questa collina, dove si consuma la tua sofferenza, non si venderà mai come suolo edificatorio.

Coraggio, comunque!

Noi credenti, nonostante tutto, possiamo contare sulla Pasqua.

E sulla Domenica, che è l’edizione settimanale della Pasqua. Essa è il giorno dei macigni che rotolano via dall'imboccatura dei sepolcri.

È l’intreccio di annunci di liberazione, portati da donne ansimanti dopo lunghe corse sull’erba. E’ l’incontro di compagni trafelati sulla strada polverosa.

È il tripudio di una notizia che si temeva non potesse giungere più e che invece corre di bocca in bocca ricreando rapporti nuovi tra vecchi amici. E’ la gioia delle apparizioni del Risorto che scatena abbracci nel cenacolo.

È la festa degli ex delusi della vita, nel cui cuore all’improvviso dilaga la speranza.

Riconciliamoci con la gioia.

La Pasqua sconfigga il nostro peccato, frantumi le nostre paure e ci faccia vedere le tristezze, le malattie, i soprusi, e perfino la morte, dal versante giusto: quello del “terzo giorno”.

Da lì le sofferenze del mondo non saranno più i rantoli dell’agonia, ma i travagli del parto.

E le stigmate lasciate dai chiodi nelle nostre mani saranno le feritoie attraverso le quali scorgeremo fin d’ora le luci di un mondo nuovo.

+ Don Tonino Bello

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lunedì 18 aprile 2011

C'è un ramo d'ulivo spezzato

C’è un ramo d’ulivo spezzato in questa settimana santa ormai alle porte. Non sta sui banchetti posti fuori le chiese, presi d’assalto dai fedeli la domenica della palme. Non entra a far parte della coreografia ingessata delle processioni, quelle che vorrebbero ricordarci nel loro beato salmodiare il procedere tragico di Gesù verso il compimento della sua storia umana, in quei primi giorni d’aprile dell’anno 30, nella città di Gerusalemme.

C’è un ramo d’ulivo spezzato, e la storia è sempre la stessa: si abbatte come una sventura inevitabile su chiunque voglia provare a dire una parola di verità. Su chi si schieri dalla parte dei piccoli, degli schiacciati e degli uccisi contro l’arroganza di un unico potere dai molti nomi, che come un virus nefasto ammorba la manciata di giorni che abbiamo da vivere su questa terra. Si chiama Denaro, Supremazia, Dominio…
Dire la verità, mettersi contro, può costare il prezzo della vita. Come ha provato a dire e fare Vittorio Arrigoni, classe 1975, nato in Brianza e morto a Gaza, a motivo della sua irrevocabile decisione di combattere a mani nude un pezzetto dell’ingiustizia del mondo. Stare dalla parte delle vittime, dei bambini morti sotto i bombardamenti israeliani di “piombo fuso”, del pianto inconsolabile delle madri. Dare da mangiare a bocche affamate e assetate, non soltanto di pane e acqua, ma di giustizia e dignità. Denunciare la violenza inenarrabile delle armi, l’agonia di un popolo.

Non saprei dire, forse Vittorio non si professava cristiano. Cosa importa? Certamente lo era, per quel surplus di umanità che incarnava e ribadiva in ogni occasione. Sicuramente sta nella schiera di quei “martiri inconsapevoli” d’essere tanto prossimi a quell’idea di Dio che incendiò la vita di Gesù di Nazaret. Un Dio la cui gloria “è l’uomo vivente”. Perché dove c’è spirito di umanità, di compassione, di misericordia e di soccorso, abita questo Dio dal cuore di carne, fatto a immagine del cuore di un bambino. Lì egli abita, molto più che in tutte le sacre liturgie del mondo.

A questo ramo d’ulivo spezzato, fratello tenero e forte, affamato di giustizia, alla sua pasqua silenziosa, pegno per una fioritura che darà molto frutto, il nostro ricordo vivido e la nostra totale riconoscenza.

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Vittorio non è mai stato così vivo come ora

Egidia Beretta Arrigoni


Bisogna morire per diventare un eroe, per avere la prima pagina dei giornali, per avere le tv fuori di casa, bisogna morire per restare umani? Mi torna alla mente il Vittorio del Natale 2005, imprigionato nel carcere dell’aeroporto Ben Gurion, le cicatrici dei manettoni che gli hanno segato i polsi, i contatti negati con il consolato, il processo farsa. E la Pasqua dello stesso anno quando, alla frontiera giordana subito dopo il ponte di Allenbay, la polizia israeliana lo bloccò per impedirgli di entrare in Israele, lo caricò su un bus e in sette, una era una poliziotta, lo picchiarono «con arte», senza lasciare segni esteriori, da veri professionisti qual sono, scaraventandolo poi a terra e lanciandogli sul viso, come ultimo sfregio, i capelli strappatagli con i loro potenti anfibi.


Vittorio era un indesiderato in Israele. Troppo sovversivo, per aver manifestato con l’amico Gabriele l’anno prima con le donne e gli uomini nel villaggio di Budrus contro il muro della vergogna, insegnando e cantando insieme il nostro più bel canto partigiano: «O bella ciao, ciao…»

Non vidi allora televisioni, nemmeno quando, nell’autunno 2008, un commando assalì il peschereccio al largo di Rafah, in acque palestinesi e Vittorio fu rinchiuso a Ramle e poi rispedito a casa in tuta e ciabatte. Certo, ora non posso che ringraziare la stampa e la tv che ci hanno avvicinato con garbo, che hanno «presidiato» la nostra casa con riguardo, senza eccessi e mi hanno dato l’occasione per parlare di Vittorio e delle sue scelte ideali.


Questo figlio perduto, ma così vivo come forse non lo è stato mai, che come il seme che nella terra marcisce e muore, darà frutti rigogliosi. Lo vedo e lo sento già dalle parole degli amici, soprattutto dei giovani, alcuni vicini, altri lontanissimi che attraverso Vittorio hanno conosciuto e capito, tanto più ora, come si può dare un senso ad «Utopia», come la sete di giustizia e di pace, la fratellanza e la solidarietà abbiano ancora cittadinanza e che, come diceva Vittorio, «la Palestina può anche essere fuori dell’uscio di casa». Eravamo lontani con Vittorio, ma più che mai vicini. Come ora, con la sua presenza viva che ingigantisce di ora in ora, come un vento che da Gaza, dal suo amato mar Mediterraneo, soffiando impetuoso ci consegni le sue speranze e il suo amore per i senza voce, per i deboli, per gli oppressi, passandoci il testimone. Restiamo umani.


Fonte: http://www.facebook.com/notes/claudio-grassi/bella-testimonianza-della-mamma-di-vittorio-arrigoni/10150222640328594


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giovedì 14 aprile 2011

Le ombre di Woityla

Wojtyla e Romero

Testimonianza di un duro confronto


Il 24 marzo 1980, mentre celebrava la Messa nella cappella dell'ospedale della Divina Provvidenza, Oscar Romero veniva ucciso da un sicario. Nell'omelia aveva ribadito la sua denuncia contro il governo di El Salvador, che aggiornava quotidianamente le mappe dei campi minati mandando avanti bambini che restavano squarciati dalle esplosioni. L'assassino sparò un solo colpo, che gli recise la vena giugulare, mentre Romero elevava l'ostia della comunione.

Nel maggio del 1979, meno di un anno prima di essere assassinato, mons. Romero fu a Roma per incontrare Giovanni Paolo II. Un incontro duro che propone un'immagine diversa del pontefice acclamato dalle folle come "santo subito".
L'episodio è raccontato in "Piezas para un retrato" (Frammenti per un ritratto) della scrittrice spagnola, e amica personale di mons. Romero, María López Vigil:


"Mi comprenda, ho bisogno di avere un'udienza con il Santo Padre...". "Comprenda lei che dovrà aspettare il suo turno, come tutti".
Un'altra porta vaticana gli si chiudeva in faccia. Da San Salvador e con il tempo necessario per superare gli ostacoli della burocrazia ecclesiastica, Mons. Romero aveva sollecitato un'udienza personale con Giovanni Paolo II. E andò a Roma sicuro che, per quando fosse arrivato, tutto sarebbe stato sistemato.
Ora tutte le sue precauzioni sembravano svanite come fumo. I curiali gli dicevano di non saper nulla di quella richiesta. E lui andava supplicando per quest'udienza di ufficio in ufficio.
"Non può essere - disse a un altro - ho scritto molto tempo fa e qui deve esserci la mia lettera...". "Le poste italiane sono un disastro!". "Ma la mia lettera l’ho mandata a mano con...".
Un'altra porta chiusa. E il giorno seguente un'altra ancora. I curiali non volevano che incontrasse il Papa. E il tempo a Roma, dove era stato invitato da alcune suore, che celebravano la beatificazione del loro fondatore, stava finendo. Non poteva tornare a San Salvador senza aver visto il Papa e senza avergli raccontato tutto quello che stava succedendo là.
"Continuerò a mendicare quest'udienza", s'incoraggiava Monsignor Romero.
La domenica, dopo la messa, il Papa scese nel grande salone, dove lo aspetta una moltitudine per la tradizionale udienza generale. Monsignor Romero si era alzato molto presto per riuscire a mettersi in prima fila. E quando il Papa passò salutando, gli afferrò la mano e lo trattenne.
"Santo Padre - gli disse con l'autorità dei mendicanti - sono l'arcivescovo di San Salvador e la supplico, mi conceda un'udienza".
II Papa acconsentì. Alla fine c'era riuscito; sarebbe stato per il giorno successivo.
Era la prima volta che l'arcivescovo di San Salvador incontrava Papa Wojtyla, che da appena sei mesi era Sommo Pontefice.
Gli portò, accuratamente selezionati, dei rapporti di tutto ciò che stava succedendo nel Salvador perché il Papa ne fosse informato. E poiché succedevano tante cose, i rapporti erano voluminosi. Monsignor Romero li portò in una scatola e li mostrò ansioso al Papa appena iniziato l'incontro.
"Santo Padre, qui potrà leggere lei stesso come tutta la campagna di calunnie contro la Chiesa e contro di me viene organizzata nella stessa casa presidenziale".
II Papa non toccò un foglio. Né aprì il fascicolo. Nemmeno chiese nulla. Si lamentò soltanto.
"Vi ho già detto di non venire carichi di tanti fogli! Qui non abbiamo il tempo di leggere tante cose".
Monsignor Romero rabbrividì ma cercò d'incassare il colpo. E lo incassò: doveva esserci un malinteso.
In un'altra busta aveva portato al Papa anche una foto di Octavio Ortiz, il sacerdote che la Guardia aveva ucciso alcuni mesi prima insieme a quattro giovani. La foto era un primo piano del volto di Octavio morto. Nel volto schiacciato dal blindato si delineavano i tratti indigeni e il sangue li sottolineava ancora di più. Si notava molto bene un taglio fatto col machete sul collo.
"Io conoscevo molto bene Octavio, Santo Padre, ed era un bravo sacerdote. L'avevo ordinato io e sapevo tutti i lavori in cui era impegnato. Quel giorno stava dando un corso sul Vangelo ai ragazzi del quartiere...".
Gli raccontò ogni dettaglio. La sua versione di arcivescovo e la versione diffusa dal governo.
"Guardi, Santo Padre, come gli hanno spappolato la faccia...". Il Papa fissò la foto e non chiese altro. Guardò poi gli occhi umidi dell'arcivescovo Romero e mosse la mano indietro, come volendo togliere drammaticità al sangue raccontato.
"Lo hanno ucciso tanto crudelmente, dicendo che era un guerrigliero...", ricordò l'arcivescovo.
"E per caso non lo era?", rispose freddamente il pontefice. Monsignor Romero guardò la foto dalla quale sperava di ottenere compassione. Qualcosa gli fece tremare la mano: doveva esserci un malinteso.
Continuò l'udienza. Seduti uno di fronte all'altro il Papa inseguiva una sola idea.
"Lei, signor arcivescovo, deve sforzarsi di avere una relazione migliore con il governo del suo Paese". Monsignor Romero lo ascoltava e la sua mente volava verso il Salvador, ricordando ciò che il governo del suo Paese faceva al popolo del suo Paese. La voce del Papa lo riportò alla realtà.
"Un'armonia tra lei e il governo salvadoregno sarebbe la cosa più cristiana in questi momenti di crisi...". Monsignore continuava ad ascoltare. Erano argomenti con i quali, in altre occasioni, era già stato pressato da altre autorità ecclesiastiche.
"Se lei superasse le proprie divergenze con il governo, potrebbe lavorare cristianamente per la pace...". Il Papa insistette tanto che l'arcivescovo decise di smettere di ascoltare e chiese di essere ascoltato. Parlò timidamente, ma deciso: "Ma, Santo Padre, nel Vangelo, Cristo ci dice di non essere venuto a portare la pace ma la spada". Il Papa fissò Romero negli occhi: "Non esageri, signor arcivescovo!".
Terminarono gli argomenti ed anche l'udienza.
Tutto ciò me lo raccontò Monsignor Romero, quasi piangendo, l'11 maggio 1979; a Madrid, mentre rientrava affrettatamente nel suo Paese, costernato dalle notizie di un massacro nella cattedrale di San Salvador.


(Monsignor Romero, Frammenti per un ritratto, di María López Vigil, NdA Press, Rimini 2005).

http://www.cdbchieri.it/rassegna_stampa_2005/wojtyla_e_romero.htm

ADISTA n°88 del 17.12.2005

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mercoledì 13 aprile 2011

Prima che il gallo schiatti

Prima che il gallo canti è notte fonda. Ci muoviamo sul terreno mobile del sotterfugio. È il tempo sinistro del presagio, l’ora terribile della delazione e del tradimento. “Prima che il gallo canti, mi avrai rinnegato tre volte” – profetizza Gesù a Simon Pietro la notte dell’arresto. I profili degli uomini scompaiono sino a fondersi nella massa informe. Le relazioni, anche le più solide, si liquefanno; e nel caos che regnava sovrano prima della creazione, noi stessi precipitiamo, evanescenti come fantasmi, prima che il gallo canti.

Il fatto è che da queste parti il gallo canta ormai da un pezzo. Nel silenzio assordante del nostro tempo, ogni volta attende un poco e canta ancora. Si guarda attorno ansioso e poi ricanta, invocando un risveglio delle coscienze che tarda ad arrivare.
Così come altrove, anche nelle questioni che riguardano la vita della Chiesa, dove il più delle volte si preferisce non assumersi la responsabilità personale della proposta critica, c’è un gallo ostinato che strilla. Al cui grido i più sonnecchiano beati. E par loro anzi doveroso restar muti ed ossequiosi di fronte a qualsivoglia pretesa del potere – qualunque nome esso ami attribuirsi.

Ma il gallo ormai rauco è qui per spezzare l'incantesimo del quieto vivere nel quale è caduto il buon cattolico pio e obbediente. E' qui per crocifiggere certezze, per affliggere consolazioni. Raspa e sbuffa per gli assopiti in siesta perenne all’ombra di qualche palazzo del potere, sia esso sacro o profano. Arcua la schiena ossuta per i devoti e gli zelanti, preoccupati più delle radici che dei frutti. Sbandiera cresta e barbigli per gli spettatori in pigiama sulle rovine del mondo, per quanti non si curano della violenza esercita anche dal potere religioso sui piccoli e sugli umili, invisibili depositari della saggezza umana.

Occorrerà insomma destarsi al più presto, anzi che la canicola meridiana ci sfianchi.
Alzarsi come risorti a spalancare porte e finestre al Soffio che rinnova ogni cosa, prima che sia troppo tardi.

Prima che ancora una volta il gallo canti.
Prima che “il canto galli”.
Prima che il gallo schiatti.

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