domenica 21 agosto 2011

I viaggi del papa e i viaggi di Gesù

Un intervento del teologo spagnolo p. José Maria Castillo - autore, tra l'altro, de: "Chiesa e diritti umani" - sul viaggio di Benedetto XVI a Madrid in occasione della GMG 2011.

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I viaggi del papa e i viaggi di Gesù

Senza dubbio, molta gente penserà che è uno sproposito mettere in relazione i viaggi del papa con i viaggi di Gesú. Venti secoli separano gli uni dagli altri. E quasi tutte le circostanze, che circondarono e circondano gli uni e gli altri sono tanto diverse, che metterli in relazione non può avere altra finalità che concludere dicendo che quei viaggi non hanno nulla a che vedere con questi.

Questo significa che, in fin dei conti e se tutto questo è cosí, quello che qui si pretenderebbe fare sarebbe semplicemente togliere prestigio al papa. Naturalmente, a chi pensa come ho appena detto non gli mancano ragioni per farlo. Ma anche dico che, se il solo titolo di questo articolo rende nervose alcune persone, forse si possa pensare ragionevolmente che, almeno all’inizio, nessuno dovrebbe essere prevenuto sul fatto che, a proposito del viaggio del papa, si dica qualcosa di come, perché, per quale motivo e con chi viaggiava Gesú.

Non diciamo che il papa è il vicario di Cristo in terra? Il dizionario dice che vicario è colui “che fa le veci, ha potere e facoltà di un altro o lo rappresenta”. Poi - dico io -, se il papa rappresenta Gesú, fatte salve tutte le differenze, qualcosa avranno a che vedere questi viaggi con quelli. E così è.

Gesú viaggiava per parlare di Dio. E per questo viene il papa a Madrid.
Gesú viaggiava per cercare i lontani da Dio. E per questo si è organizzata la Giornata Mondiale della Gioventù, giacché ci sono ragioni per pensare che i giovani sono uno dei settori della popolazione più lontani dalla fede in Dio.
Gesú viaggiava per consolare coloro che soffrono. E non c’è dubbio che la visita del papa servirà di consolazione a non poche persone afflitte.

Tutto questo è certo. Però è anche vero che Gesú viaggiava in modo che le “moltitudini”, che accorrevano a lui per ascoltarlo, erano persone che i vangeli designano normalmente mediante la parola greca “óchlos”, che appare 170 volte nei vangeli. E che designa, non solo una quantità grande di gente, ma anche gente ignorante, di condizione sociale umile e che era considerata dalle persone pie come “una massa che non conosce la legge religiosa ed è maledetta”, come dicevano le persone religiose più osservanti (Gv 7, 49).

Se gli autori dei vangeli disponevano di altre parole greche (“démos”, “laòs”, “éthnos”...) per designare il popolo che accorreva a Gesú, perché normalmente utilizzano la parola più dispregiativa che avevano a disposizione? Quale fascino strano aveva quell’itinerante instancabile che fu Gesú?

Nel farmi queste domande, non pretendo di mettere in questione né il costo economico che avrà il viaggio del papa, né quello che si attendono quelli che hanno organizzato questo viaggio, né quello che cercano quelli che viaggeranno fino a Madrid per ascoltarlo.
Io mi chiedo qualcosa che è molto più grave, più urgente, più forte: stando come stanno le cose nei paesi del corno d’Africa, dove centomila bambini muoiono di fame e di carestia, e in attesa che i paesi più potenti del mondo non pongano rimedio a questa situazione tanto angosciosa, perché il papa non va, almeno al momento, in Somalia e Kenia, e resta lí, nei campi dei rifugiati, fino a che non si ponga un rimedio efficace per questa situazione di tanti esseri innocenti che si dibattono tra la vita e la morte?
Se ci sono fondate speranze che un gesto così del papa sarebbe uno scuotere la coscienza di tanti multimilionari che potrebbero alleviare il presente stato di cose, perché il papa non lo fa? Non è più necessario, più importante, più umano, più evangelico, in questo drammatico momento, andare con i poveri moribondi invece che entrare trionfante nell’accoglienza da apoteosi che gli riserveranno a Madrid?

E vedo che sto per mettere le mani avanti. Poiché molti sono quelli che diranno che tutto questo è demagogia a buon mercato, utopia inutile, etc, etc. Però, anche a rischio che mi si dica in faccia tutto questo, e molto di più, non tralascerò di dire quello che sento, davanti ad una necessità così patente e che tanto grida verso il cielo. Anzi, se lo dico, non è per attaccare la chiesa o il papa. Tutto il contrario. Lo dico perché sono fermamente convinto della forza che hanno la chiesa ed il papa per smuovere i cuori e le coscienze quando sono in gioco la vita o la morte di tanti essere deboli, i più indifesi ed abbandonati.

Naturalmente, che il papa si riunisca pure con i giovani e smuova le loro coscienze, indichi loro il cammino del Vangelo e faccia scoprire loro orizzonti di umanità. Però, per favore, quello che è primario è primario. E, senza alcun dubbio, la cosa più urgente, in questo momento, è salvare la vita di tante persone che sono i “nessuno” di questo mondo.

E termino affermando che questo non è solo per il papa ed vescovi. E’ per tutti. Per me innanzitutto. Perché tutti abbiamo il coraggio di affrontare una situazione che non ammette indugio.

José Maria Castillo

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venerdì 19 agosto 2011

Vacche magre e otto per mille




















Almeno in tempi di crisi economica, l'Istituzione ecclesiastica può far finta di nulla sulla questione dell'Otto per mille?

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Chiesa, tre metri sopra l’Irpef
di Marco Politi

in “il Fatto Quotidiano” del 18 agosto 2011

La Chiesa italiana è chiamata a dare il suo contributo per il risanamento del deficit nazionale. In una fase di tagli pesantissimi generalizzati, chi è percettore di un flusso ingente di finanziamenti pubblici non può sentirsi “al di sopra delle parti”. Partecipare è un dovere morale.
Nei tempi antichi, in casi d’invasione e di assedi, si fondevano i calici e gli ori dei templi per finanziare la difesa della città o riscattare i prigionieri. Altrettanto vale oggi, quando il nemico – più insidioso e distruttivo – è annidato nelle finanze pubbliche e può essere debellato soltanto se veramente tutti, e non solo le famiglie a reddito fisso, partecipano ai sacrifici.

Sbaglierebbe la gerarchia ecclesiastica a scrollarsi di dosso la richiesta, etichettandola come anticlericale o animata da spirito antireligioso. È vero il contrario. Il dovere di mettere mano alle proprie disponibilità nasce (dovrebbe nascere) da una considerazione anche religiosa del “bene comune” e dello stesso destino dello stato sociale. In Grecia la Chiesa ortodossa sta valutando, con il governo, di sostenere il bilancio pubblico vendendo parte del suo patrimonio immobiliare. Può la Chiesa italiana rifiutarsi di affrontare nella fase attuale la questione dell’8 per mille, che pesa sul bilancio dello stato per oltre mille milioni?

Dirò subito che nell’ottica di uno stato sociale e democratico, che favorisce lo sviluppo della personalità dei cittadini nella dimensione culturale, valoriale e associativa, anche sostenere l’espressione comunitaria di una fede e favorire la costruzione di una chiesa, una sinagoga o una moschea è un elemento di civiltà.
Il fatto è che in Italia il sistema dell’8 per mille, che concede democraticamente a qualsiasi cittadino di devolvere una quota dell’Irpef alla confessione religiosa di sua scelta o allo Stato per fini umanitari, è nato sulle basi di un imbroglio. È evidente che il cittadino, che non vuole usufruire della facoltà di devolvere la sua quota a un destinatario preciso, intende lasciare alla piena disponibilità dello Stato la sua Irpef. Così succede in Spagna , che pure ha copiato concettualmente il sistema italiano. La truffa-Tremonti avvenuta nel 1985, è che le somme non toccate – le quote di Irpef dei cittadini che non si sono “espressi” – vengono nuovamente suddivise in base ai “voti” di quanti hanno manifestato la loro preferenza nella dichiarazione dei redditi. Con il risultato che le “preferenze” per le Chiesa cattolica, pari a circa un terzo delle dichiarazioni, attraverso il riconteggio arrivano a qualcosa come l’87 per cento e in tal modo l’istituzione ecclesiastica giunge incassare circa un miliardo di euro.

L’irrazionalità di questo meccanismo è aggravata da molteplici fattori.
Anzitutto il gettito dell’8 per mille è aumentato esponenzialmente a un ritmo tale che ha non più nessuna relazione con la struttura della Chiesa cattolica. Il numero dei sacerdoti in Italia va infatti sistematicamente calando. Nel 1978, al momento dell’elezione di papa Wojtyla, erano oltre quarantunmila, oggi sono scesi a trentaduemila e nel 2013 dovrebbero ridursi a ventottomila secondo uno studio del sociologo cattolico Diotallevi (insieme a Stefano Molina). Insomma la Chiesa italiana più si riduce e più incassa in finanziamenti statali.

La seconda anomalia è rappresentata dal fatto che il governo Berlusconi ha rallentato l’accesso al sistema dell’8 per mille di altre confessioni in modo da non scalfire la parte del leone che arriva alla Cei. Da anni l’Unione buddista, i Testimoni di Geova, la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, l’Unione induista, l’Esarcato ortodosso e la Chiesa apostolica – che pure hanno firmato le intese con lo Stato italiano – attendono la ratifica del parlamento. Solo per le ultime due è arrivata finora l’approvazione del Senato, ma manca quella della Camera. L’“inerzia” non è casuale.

Ogni “voto” a una nuova confessione, toglie fondi alla Chiesa cattolica. È bastato negli anni scorsiche ci fosse un piccolissimo incremento per i Valdesi e sono stati milioni persi per la Cei. Dunque il motto è “non disturbare le gerarchie ecclesiastiche”.

Terzo scandalo è che lo Stato non metta un’indicazione di scopo alle “preferenze” per la quota statale destinata a fini umanitari. Se Berlusconi avesse detto che andava alla ricostruzione dell’Aquila, vi sarebbero stati milioni di “voti”. Ma proprio questo non si voleva. La Chiesa ha la pretesa che lo Stato non proponga nulla.

Questo è il quadro. Che cosa si può fare immediatamente?
La via maestra, la più dignitosa per la Chiesa, è che la Cei nella seduta del suo prossimo Consiglio permanente a settembre annunci di lasciare allo Stato una quota cospicua dei finanziamenti alla luce del fatto che vi sono stati tagli pesanti in tutti ministeri e negli enti locali con riflessi durissimi sulla vita dei cittadini. La Cei insieme alle diocesi in questi anni, con progetti di credito a favore delle famiglie deboli, ha fatto molto. Abbia il coraggio di correggere la stortura del sistema.

Il governo a sua volta, a norma dell’art. 49 della legge che ha istituito l’8 per mille nel 1985, convochi la commissione paritetica con l’episcopato per rivedere – come è espressamente previsto – la somma del gettito.

Il governo indichi chiaramente lo scopo pubblico della quota a lui riservata per coinvolgere i cittadini su obiettivi precisi e cessi l’andazzo vergognoso per cui milioni della “quota statale” tornano a destinatari ecclesiastici con interventi a pioggia come accade da anni.

Si abolisca, infine, il doppio conteggio.

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