giovedì 21 aprile 2011

Collocazione provvisoria

Da bambino ero solito visitare la tomba di una vecchia prozia, di cui per altro non avevo alcuna memoria.
Sulla piccola lapide campeggiava un'abbreviazione che da sola bastava a dare il senso del risparmio: "PROVV". "Vuol dire provvisorio" - suggeriva mio padre.

Il tempo passava, ma quella specie di avviso di lavori in corso a beneficio del sempre meno affranto visitatore, restava lì, suscitando un certo imbarazzo e qualche composto sorriso di compatimento. Qualcuno sussurrava che i parenti stretti non avessero abbastanza mezzi o persino affetto per una definitiva sistemazione della fossa.

Con gli anni nessuno fece probabilmente più caso alla vecchia piccola lapide provvisoria. Nella generale indifferenza, finì col divenire definitiva, come la gramigna che prosperava indisturbata lì attorno. O i garofani di plastica rosa lasciati ad ingiallire.


Perlomeno sino al lunedì in cui i resti riesumati della defunta furono solennemente traslati nell'ossario del medesimo cimitero.

Quel giorno, i parsimoniosi parenti della prozia - almeno coloro che nel frattempo non fossero già a loro volta finiti sotto una lapide provvisoria - cantarono vittoria. Senza più temere il biasimo di nessuno, videro premiata dalle circostanze la loro fermezza nel sottolineare, in tutti quegli anni, la definitiva provvisorietà della morte.


Buona Pasqua.


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Collocazione provvisoria
Tonino Bello, vescovo


C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato alla morte di Cristo:

“Da mezzogiorno al le tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra”.

Forse è la frase più scura di tutta la Bibbia.

Per me è una delle più luminose. Proprio per quelle riduzioni di orario che stringono, come due paletti invalicabili, il tempo in cui è concesso al buio di infierire sulla terra.

Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane. Ecco le saracinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra. Ecco le barriere entro cui si consumano tutte le agonie dei figli dell’uomo”.

“Collocazione provvisoria”. Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce.

La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo.

Coraggio, allora: la tua croce, anche se durasse tutta la vita, è sempre “collocazione provvisoria”.

Il Calvario, dove essa è piantata, non è zona residenziale.

E il terreno di questa collina, dove si consuma la tua sofferenza, non si venderà mai come suolo edificatorio.

Coraggio, comunque!

Noi credenti, nonostante tutto, possiamo contare sulla Pasqua.

E sulla Domenica, che è l’edizione settimanale della Pasqua. Essa è il giorno dei macigni che rotolano via dall'imboccatura dei sepolcri.

È l’intreccio di annunci di liberazione, portati da donne ansimanti dopo lunghe corse sull’erba. E’ l’incontro di compagni trafelati sulla strada polverosa.

È il tripudio di una notizia che si temeva non potesse giungere più e che invece corre di bocca in bocca ricreando rapporti nuovi tra vecchi amici. E’ la gioia delle apparizioni del Risorto che scatena abbracci nel cenacolo.

È la festa degli ex delusi della vita, nel cui cuore all’improvviso dilaga la speranza.

Riconciliamoci con la gioia.

La Pasqua sconfigga il nostro peccato, frantumi le nostre paure e ci faccia vedere le tristezze, le malattie, i soprusi, e perfino la morte, dal versante giusto: quello del “terzo giorno”.

Da lì le sofferenze del mondo non saranno più i rantoli dell’agonia, ma i travagli del parto.

E le stigmate lasciate dai chiodi nelle nostre mani saranno le feritoie attraverso le quali scorgeremo fin d’ora le luci di un mondo nuovo.

+ Don Tonino Bello

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lunedì 18 aprile 2011

C'è un ramo d'ulivo spezzato

C’è un ramo d’ulivo spezzato in questa settimana santa ormai alle porte. Non sta sui banchetti posti fuori le chiese, presi d’assalto dai fedeli la domenica della palme. Non entra a far parte della coreografia ingessata delle processioni, quelle che vorrebbero ricordarci nel loro beato salmodiare il procedere tragico di Gesù verso il compimento della sua storia umana, in quei primi giorni d’aprile dell’anno 30, nella città di Gerusalemme.

C’è un ramo d’ulivo spezzato, e la storia è sempre la stessa: si abbatte come una sventura inevitabile su chiunque voglia provare a dire una parola di verità. Su chi si schieri dalla parte dei piccoli, degli schiacciati e degli uccisi contro l’arroganza di un unico potere dai molti nomi, che come un virus nefasto ammorba la manciata di giorni che abbiamo da vivere su questa terra. Si chiama Denaro, Supremazia, Dominio…
Dire la verità, mettersi contro, può costare il prezzo della vita. Come ha provato a dire e fare Vittorio Arrigoni, classe 1975, nato in Brianza e morto a Gaza, a motivo della sua irrevocabile decisione di combattere a mani nude un pezzetto dell’ingiustizia del mondo. Stare dalla parte delle vittime, dei bambini morti sotto i bombardamenti israeliani di “piombo fuso”, del pianto inconsolabile delle madri. Dare da mangiare a bocche affamate e assetate, non soltanto di pane e acqua, ma di giustizia e dignità. Denunciare la violenza inenarrabile delle armi, l’agonia di un popolo.

Non saprei dire, forse Vittorio non si professava cristiano. Cosa importa? Certamente lo era, per quel surplus di umanità che incarnava e ribadiva in ogni occasione. Sicuramente sta nella schiera di quei “martiri inconsapevoli” d’essere tanto prossimi a quell’idea di Dio che incendiò la vita di Gesù di Nazaret. Un Dio la cui gloria “è l’uomo vivente”. Perché dove c’è spirito di umanità, di compassione, di misericordia e di soccorso, abita questo Dio dal cuore di carne, fatto a immagine del cuore di un bambino. Lì egli abita, molto più che in tutte le sacre liturgie del mondo.

A questo ramo d’ulivo spezzato, fratello tenero e forte, affamato di giustizia, alla sua pasqua silenziosa, pegno per una fioritura che darà molto frutto, il nostro ricordo vivido e la nostra totale riconoscenza.

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Vittorio non è mai stato così vivo come ora

Egidia Beretta Arrigoni


Bisogna morire per diventare un eroe, per avere la prima pagina dei giornali, per avere le tv fuori di casa, bisogna morire per restare umani? Mi torna alla mente il Vittorio del Natale 2005, imprigionato nel carcere dell’aeroporto Ben Gurion, le cicatrici dei manettoni che gli hanno segato i polsi, i contatti negati con il consolato, il processo farsa. E la Pasqua dello stesso anno quando, alla frontiera giordana subito dopo il ponte di Allenbay, la polizia israeliana lo bloccò per impedirgli di entrare in Israele, lo caricò su un bus e in sette, una era una poliziotta, lo picchiarono «con arte», senza lasciare segni esteriori, da veri professionisti qual sono, scaraventandolo poi a terra e lanciandogli sul viso, come ultimo sfregio, i capelli strappatagli con i loro potenti anfibi.


Vittorio era un indesiderato in Israele. Troppo sovversivo, per aver manifestato con l’amico Gabriele l’anno prima con le donne e gli uomini nel villaggio di Budrus contro il muro della vergogna, insegnando e cantando insieme il nostro più bel canto partigiano: «O bella ciao, ciao…»

Non vidi allora televisioni, nemmeno quando, nell’autunno 2008, un commando assalì il peschereccio al largo di Rafah, in acque palestinesi e Vittorio fu rinchiuso a Ramle e poi rispedito a casa in tuta e ciabatte. Certo, ora non posso che ringraziare la stampa e la tv che ci hanno avvicinato con garbo, che hanno «presidiato» la nostra casa con riguardo, senza eccessi e mi hanno dato l’occasione per parlare di Vittorio e delle sue scelte ideali.


Questo figlio perduto, ma così vivo come forse non lo è stato mai, che come il seme che nella terra marcisce e muore, darà frutti rigogliosi. Lo vedo e lo sento già dalle parole degli amici, soprattutto dei giovani, alcuni vicini, altri lontanissimi che attraverso Vittorio hanno conosciuto e capito, tanto più ora, come si può dare un senso ad «Utopia», come la sete di giustizia e di pace, la fratellanza e la solidarietà abbiano ancora cittadinanza e che, come diceva Vittorio, «la Palestina può anche essere fuori dell’uscio di casa». Eravamo lontani con Vittorio, ma più che mai vicini. Come ora, con la sua presenza viva che ingigantisce di ora in ora, come un vento che da Gaza, dal suo amato mar Mediterraneo, soffiando impetuoso ci consegni le sue speranze e il suo amore per i senza voce, per i deboli, per gli oppressi, passandoci il testimone. Restiamo umani.


Fonte: http://www.facebook.com/notes/claudio-grassi/bella-testimonianza-della-mamma-di-vittorio-arrigoni/10150222640328594


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giovedì 14 aprile 2011

Le ombre di Woityla

Wojtyla e Romero

Testimonianza di un duro confronto


Il 24 marzo 1980, mentre celebrava la Messa nella cappella dell'ospedale della Divina Provvidenza, Oscar Romero veniva ucciso da un sicario. Nell'omelia aveva ribadito la sua denuncia contro il governo di El Salvador, che aggiornava quotidianamente le mappe dei campi minati mandando avanti bambini che restavano squarciati dalle esplosioni. L'assassino sparò un solo colpo, che gli recise la vena giugulare, mentre Romero elevava l'ostia della comunione.

Nel maggio del 1979, meno di un anno prima di essere assassinato, mons. Romero fu a Roma per incontrare Giovanni Paolo II. Un incontro duro che propone un'immagine diversa del pontefice acclamato dalle folle come "santo subito".
L'episodio è raccontato in "Piezas para un retrato" (Frammenti per un ritratto) della scrittrice spagnola, e amica personale di mons. Romero, María López Vigil:


"Mi comprenda, ho bisogno di avere un'udienza con il Santo Padre...". "Comprenda lei che dovrà aspettare il suo turno, come tutti".
Un'altra porta vaticana gli si chiudeva in faccia. Da San Salvador e con il tempo necessario per superare gli ostacoli della burocrazia ecclesiastica, Mons. Romero aveva sollecitato un'udienza personale con Giovanni Paolo II. E andò a Roma sicuro che, per quando fosse arrivato, tutto sarebbe stato sistemato.
Ora tutte le sue precauzioni sembravano svanite come fumo. I curiali gli dicevano di non saper nulla di quella richiesta. E lui andava supplicando per quest'udienza di ufficio in ufficio.
"Non può essere - disse a un altro - ho scritto molto tempo fa e qui deve esserci la mia lettera...". "Le poste italiane sono un disastro!". "Ma la mia lettera l’ho mandata a mano con...".
Un'altra porta chiusa. E il giorno seguente un'altra ancora. I curiali non volevano che incontrasse il Papa. E il tempo a Roma, dove era stato invitato da alcune suore, che celebravano la beatificazione del loro fondatore, stava finendo. Non poteva tornare a San Salvador senza aver visto il Papa e senza avergli raccontato tutto quello che stava succedendo là.
"Continuerò a mendicare quest'udienza", s'incoraggiava Monsignor Romero.
La domenica, dopo la messa, il Papa scese nel grande salone, dove lo aspetta una moltitudine per la tradizionale udienza generale. Monsignor Romero si era alzato molto presto per riuscire a mettersi in prima fila. E quando il Papa passò salutando, gli afferrò la mano e lo trattenne.
"Santo Padre - gli disse con l'autorità dei mendicanti - sono l'arcivescovo di San Salvador e la supplico, mi conceda un'udienza".
II Papa acconsentì. Alla fine c'era riuscito; sarebbe stato per il giorno successivo.
Era la prima volta che l'arcivescovo di San Salvador incontrava Papa Wojtyla, che da appena sei mesi era Sommo Pontefice.
Gli portò, accuratamente selezionati, dei rapporti di tutto ciò che stava succedendo nel Salvador perché il Papa ne fosse informato. E poiché succedevano tante cose, i rapporti erano voluminosi. Monsignor Romero li portò in una scatola e li mostrò ansioso al Papa appena iniziato l'incontro.
"Santo Padre, qui potrà leggere lei stesso come tutta la campagna di calunnie contro la Chiesa e contro di me viene organizzata nella stessa casa presidenziale".
II Papa non toccò un foglio. Né aprì il fascicolo. Nemmeno chiese nulla. Si lamentò soltanto.
"Vi ho già detto di non venire carichi di tanti fogli! Qui non abbiamo il tempo di leggere tante cose".
Monsignor Romero rabbrividì ma cercò d'incassare il colpo. E lo incassò: doveva esserci un malinteso.
In un'altra busta aveva portato al Papa anche una foto di Octavio Ortiz, il sacerdote che la Guardia aveva ucciso alcuni mesi prima insieme a quattro giovani. La foto era un primo piano del volto di Octavio morto. Nel volto schiacciato dal blindato si delineavano i tratti indigeni e il sangue li sottolineava ancora di più. Si notava molto bene un taglio fatto col machete sul collo.
"Io conoscevo molto bene Octavio, Santo Padre, ed era un bravo sacerdote. L'avevo ordinato io e sapevo tutti i lavori in cui era impegnato. Quel giorno stava dando un corso sul Vangelo ai ragazzi del quartiere...".
Gli raccontò ogni dettaglio. La sua versione di arcivescovo e la versione diffusa dal governo.
"Guardi, Santo Padre, come gli hanno spappolato la faccia...". Il Papa fissò la foto e non chiese altro. Guardò poi gli occhi umidi dell'arcivescovo Romero e mosse la mano indietro, come volendo togliere drammaticità al sangue raccontato.
"Lo hanno ucciso tanto crudelmente, dicendo che era un guerrigliero...", ricordò l'arcivescovo.
"E per caso non lo era?", rispose freddamente il pontefice. Monsignor Romero guardò la foto dalla quale sperava di ottenere compassione. Qualcosa gli fece tremare la mano: doveva esserci un malinteso.
Continuò l'udienza. Seduti uno di fronte all'altro il Papa inseguiva una sola idea.
"Lei, signor arcivescovo, deve sforzarsi di avere una relazione migliore con il governo del suo Paese". Monsignor Romero lo ascoltava e la sua mente volava verso il Salvador, ricordando ciò che il governo del suo Paese faceva al popolo del suo Paese. La voce del Papa lo riportò alla realtà.
"Un'armonia tra lei e il governo salvadoregno sarebbe la cosa più cristiana in questi momenti di crisi...". Monsignore continuava ad ascoltare. Erano argomenti con i quali, in altre occasioni, era già stato pressato da altre autorità ecclesiastiche.
"Se lei superasse le proprie divergenze con il governo, potrebbe lavorare cristianamente per la pace...". Il Papa insistette tanto che l'arcivescovo decise di smettere di ascoltare e chiese di essere ascoltato. Parlò timidamente, ma deciso: "Ma, Santo Padre, nel Vangelo, Cristo ci dice di non essere venuto a portare la pace ma la spada". Il Papa fissò Romero negli occhi: "Non esageri, signor arcivescovo!".
Terminarono gli argomenti ed anche l'udienza.
Tutto ciò me lo raccontò Monsignor Romero, quasi piangendo, l'11 maggio 1979; a Madrid, mentre rientrava affrettatamente nel suo Paese, costernato dalle notizie di un massacro nella cattedrale di San Salvador.


(Monsignor Romero, Frammenti per un ritratto, di María López Vigil, NdA Press, Rimini 2005).

http://www.cdbchieri.it/rassegna_stampa_2005/wojtyla_e_romero.htm

ADISTA n°88 del 17.12.2005

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mercoledì 13 aprile 2011

Prima che il gallo schiatti

Prima che il gallo canti è notte fonda. Ci muoviamo sul terreno mobile del sotterfugio. È il tempo sinistro del presagio, l’ora terribile della delazione e del tradimento. “Prima che il gallo canti, mi avrai rinnegato tre volte” – profetizza Gesù a Simon Pietro la notte dell’arresto. I profili degli uomini scompaiono sino a fondersi nella massa informe. Le relazioni, anche le più solide, si liquefanno; e nel caos che regnava sovrano prima della creazione, noi stessi precipitiamo, evanescenti come fantasmi, prima che il gallo canti.

Il fatto è che da queste parti il gallo canta ormai da un pezzo. Nel silenzio assordante del nostro tempo, ogni volta attende un poco e canta ancora. Si guarda attorno ansioso e poi ricanta, invocando un risveglio delle coscienze che tarda ad arrivare.
Così come altrove, anche nelle questioni che riguardano la vita della Chiesa, dove il più delle volte si preferisce non assumersi la responsabilità personale della proposta critica, c’è un gallo ostinato che strilla. Al cui grido i più sonnecchiano beati. E par loro anzi doveroso restar muti ed ossequiosi di fronte a qualsivoglia pretesa del potere – qualunque nome esso ami attribuirsi.

Ma il gallo ormai rauco è qui per spezzare l'incantesimo del quieto vivere nel quale è caduto il buon cattolico pio e obbediente. E' qui per crocifiggere certezze, per affliggere consolazioni. Raspa e sbuffa per gli assopiti in siesta perenne all’ombra di qualche palazzo del potere, sia esso sacro o profano. Arcua la schiena ossuta per i devoti e gli zelanti, preoccupati più delle radici che dei frutti. Sbandiera cresta e barbigli per gli spettatori in pigiama sulle rovine del mondo, per quanti non si curano della violenza esercita anche dal potere religioso sui piccoli e sugli umili, invisibili depositari della saggezza umana.

Occorrerà insomma destarsi al più presto, anzi che la canicola meridiana ci sfianchi.
Alzarsi come risorti a spalancare porte e finestre al Soffio che rinnova ogni cosa, prima che sia troppo tardi.

Prima che ancora una volta il gallo canti.
Prima che “il canto galli”.
Prima che il gallo schiatti.

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