domenica 10 febbraio 2013

Vittime del peccato

Mi sta accompagnando in questi giorni la lettura di un libro di José Maria Castillo, Vittime del peccato, pubblicato nel 2012 dall'editore Fazi nella collana Campo dei Fiori, curata da Vito Mancuso. Vi si tratta il tema del peccato e soprattutto di come esso possa diventare e molte volte sia diventato strumento di dominio nelle mani della religione ufficiale. 
Impressiona per ora la distanza fra la concezione gesuana di peccato e quella presente nell'antico testamento sino al tardo giudaismo e a Giovanni il Battista. Quest'ultima - sostiene Castillo – purtroppo accompagna ancora la religione del nostro tempo e concepisce il peccato come offesa a Dio mediante la trasgressione della Legge, "come violazione dei mandati e delle proibizioni divine e, quindi, come deviazioni dal retto e buon cammino" (p. 56). Giovanni il Battezzatore è preoccupato di questo e da questo invita alla conversione. C’è un salto enorme fra questa visione e la concezione di peccato nell’annuncio del regno operato da Gesù.
La preoccupazione di Gesù non è la trasgressione della Legge, ma la sofferenza delle persone, "la loro felicità o sventura" (p. 85). Non la "collera divina" – che Giovanni paventava a ogni piè sospinto e che egli, Gesù, invece neppure riesce a concepire – ma la sofferenza umana sta al centro di tutto. "La missione di Gesù e dei suoi discepoli è, prima di ogni altra cosa, rimediare alla sofferenza di questo mondo e rendere più felice la vita delle persone": e dunque a peccare è "chi causa la sofferenza o se ne disinteressa" (p. 84).
Per Gesù "chi si impegna veramente e a lottare contro il dolore del mondo e le pene della gente entrerà in conflitto con le autorità civili (sinedri) e religiose (sinagoghe). Perché, in fin dei conti, sono i poteri di questo mondo, civili o religiosi, a causare la maggiore sofferenza della povera gente" (p. 84).
Continua Castillo: "Gli 'uomini della religione' si sono sempre dedicati alla religione sopra ogni altra cosa. Si sono impegnati, anima e corpo, a difendere le verità religiose, ad adempiere alle leggi religiose e a osservare i rituali religiosi. E vi si sono donati con una fedeltà tale che, in caso di necessità, hanno persino abbandonato per strada un moribondo pur di arrivare puntuali e immacolati alle cerimonie del tempio (...). Nelle religioni del mondo e in particolare nella Chiesa abbondano i 'pastori di anime' che assomigliano al sacerdote e al levita della parabola del buon samaritano. Il che dimostra fino a che punto la religione corre il rischio indurire il cuore degli uomini” sino a rendere “i professionisti della religione un modello finito e perfetto di mancanza di solidarietà. Perché ciò che importa loro è la relazione con Dio, cioè il peccato. Mentre invece l'eretico samaritano è il modello di come bisogna agire dinanzi alla sofferenza umana" (p. 88-89).
Certi "uomini della religione" - Castillo non generalizza certo - sono disposti a tutto. "Da quelli che, per adempiere ai propri obblighi religiosi, non esitano a uccidere chi si oppone alla propria religione a quelli che, per esempio, hanno fatto tutto il possibile per sopprimere la teologia della liberazione, perché si occupava dei problemi sociali e trascurava l'ortodossia che hanno in mente i professionisti del 'pensiero unico', quel 'monolite religioso' che alcuni considerano indiscutibile e intoccabile, per come loro lo vedono". (p.89).
Tutto questo mentre Gesù si occupa prima di tutto e sino all'ultimo della pena della gente. Così nella scena del cosiddetto giudizio finale (Mt 25,31-46) egli rivela che "quando arriverà il momento definitivo, il criterio che Dio seguirà per distinguere coloro che si salvano da coloro che sono perduti, non sarà il peccato ma la sofferenza. Il testo infatti non dice: Andate, maledetti, nel fuoco eterno perché avete rubato, ucciso, mentito, fornicato, ecc. Non si menziona né la violazione di un solo comandamento, né l'inadempimento di una sola norma. Né si parla di macchie o colpe. Né di offese a Dio. Anzi, non si parla affatto di fede né di religione ma, unicamente, di una cosa, una sola, che è quella determinante: l'interesse o il disinteresse che ciascuno ha avuto nei confronti della sofferenza degli altri. Gesù non parla d'altro: la fame, la sete, l'isolamento, la privazione totale di chi non ha che cosa mettersi, la malattia, la mancanza di libertà e gli oltraggi subiti dal prigioniero. Ciò che conta non è il comportamento dell'uomo verso Dio, ma dell'uomo verso l'uomo. Né contano la dignità o i diritti di Dio, ma piuttosto la dignità e i diritti dell'essere umano. Chi si disinteressa della sofferenza degli altri pecca". (p. 90).
"Gesù – sostiene Castillo – ha cambiato la nostra comprensione del peccato perché, in definitiva, ha cambiato la nostra comprensione di Dio", annunziando un "Dio che si fonde e confonde con l'essere umano" (p. 91). Ma, mi domando: le cose stanno proprio così? È proprio vero che la comprensione del peccato da parte del cristiani oggi è quella che Gesù aveva in mente e soprattutto in cuore? E nella ordinaria catechesi della Chiesa, per quanto riguarda questo argomento, non si preferisce tornare all'antico e lasciare i fedeli nell' "ignoranza delle scritture"? E se uno si mettesse alle porte delle chiese e chiedesse alle buone persone religiose che cosa esse intendono per peccato, quante volte la risposta rispecchierebbe davvero il pensiero e l’azione di Gesù?
Ne riparleremo.

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