Durante la messa di ieri, celebrata nel il rito ambrosiano, sono stato colpito da un’espressione usata nel prefazio, che è la
preghiera che il sacerdote fa prima di consacrare il pane e il vino. In essa, tra le
altre cose, si dice che “Per riscattare la famiglia umana il Signore Gesù…
vinse il mondo con il suo dolore e la sua morte”. L’idea veicolata da una
simile espressione è ancora quella del sacrificio. Davanti agli occhi del pio
praticante la visione che si staglia è più o meno la seguente: all’alba dei
tempi il mondo viene creato da Dio una volta per tutte; Dio pone l'uomo al
centro del creato, ma subito questi disobbedisce a certe norme più o meno
sensate, offendendo il Creatore in maniera mortale e ponendo un germe di
inimicizia tra sé e lui. Occorre qualcuno che lo “riscatti” da questa distanza.
Questo è il primo problema, che riguarda essenzialmente il volto
di Dio. Un Dio evidentemente perennemente corrucciato dai giorni dell’Eden. Una
sorta di inquieto Barbablu che vedendo morire sulla croce l’unico Figlio,
improvvisamente ottiene di placare la propria collera nei confronti del genere
umano che lo aveva offeso nella persona dei progenitori. A parte tutte le altre
questioni che vengono aperte da una tale ingenua visione delle cose, mi
chiedo: ma può un dio dal profilo così ambivalente, che pretende di essere
padre e nel contempo desiderare la morte del figlio come pieno risarcimento per
il peccato commesso da altri, avere qualche possibilità di credibilità nel suo
essere buono e misericordioso? Come si può affermare la piena gratuità
dell'amore di Dio se ancora, nella esperienza di fede, sussiste indisturbata
questa immagine di dio? Come non prevedere che si crei una grande confusione
mentale in chi la prenda sul serio e che alla lunga tale confusione sfoci in
nevrosi?
La seconda perplessità va a braccetto con la prima: sono il dolore
e la morte di Gesù a “vincere il mondo” o piuttosto la sua ferma decisione a
rendere testimonianza alla propria visione del mondo? Il sangue versato non è
forse la inevitabile conseguenza del suo voler restare fedele a se stesso e del
suo modo di intendere la vita? La morte violenta non è lo sbocco prevedibile
del suo pressante annuncio del regno di Dio, così scomodo per il potere
religioso e politico del tempo e di tutti i tempi? Perché dunque nel cuore del
rito eucaristico, facendo memoria di tutto ciò, ci si ostina a sottacere la
causa sottolineando l’esito? Perché le persone sono ogni volta invitate a
riflettere sul dolore finale e molto meno sull’intima decisione di Gesù, quella
che ha pervaso tutta la sua esistenza terrena? Decisione di offrire una ricetta
di una possibile convivialità e di stare dalla parte degli oppressi sino alle
conseguenze più estreme. Decisione di annunciare la Bontà senza condizioni che desidera
che gli uomini vivano e vivano in pace.
Soltanto nella chiara consapevolezza della “fedeltà al mondo” da
parte di Gesù, del coraggio radicale di parteggiare per i piccoli e per gli
esclusi. Soltanto facendo piazza pulita da ormai incomprensibili e imbarazzanti
immagini di Dio. Soltanto allora potremo essere “riconoscenti e ammirati per
questo disegno d’amore, ed elevare uniti agli angeli e ai santi l’inno di
lode”.
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