giovedì 17 novembre 2011

La pace dei sensi

















La Comunità
pastorale è la pace dei sensi. È il nirvana, un anticipo d’eterno (riposo). Attraente come un brodo caldo a ferragosto, è una nave da guerra dove ogni cosa funziona a dovere, se tutti stanno buoni buoni al proprio posto di combattimento, lasciando il comando a un solo uomo o forse a un uomo solo. Che con la scusa di dover stare al timone, troppo di rado si fa vedere sul ponte.

L’organizzazione è precisa. Tutto gira che è una meraviglia. Mansioni, funzioni, responsabilità più o meno di facciata. Ci sono gruppi in tutte le salse, programmi il più delle volte eccessivi e spazi extra-large per un’utenza sempre più ridotta nel numero. Il carrozzone cammina, l’oliatura è perfetta, sotto la regia di un Direttivo rigorosamente in clergy-man.

A ben guardare però, la Comunità pastorale – questa Comunità pastorale – dietro l'inevitabile immagine ottimistica che di sé vorrebbe offrire, nasconde un'indole novembrina, è giusta per il tempo dei morti. Il delirio di accentramento che la agita rischia di ridurre la res religiosa a tiepide pratiche cimiteriali: spazzare il vialetto, cambiare l’acqua ai fiori, lustrare la lapide. Quella di una comunità locale che non c’è più e alla quale si dovrebbe almeno intonare il requiem, se la vita cristiana si svuota di sguardi e si riduce per lo più a un privato, intimistico itinerario punteggiato qua e là di qualche devozione e fioretto.

In questo tempo feroce, di quanta cura ci sarebbe bisogno, di quanto ascolto, sostegno. “Vicinanza di case” – questo il senso etimologico del termine “parrocchia” – convivio spirituale: ecco cosa dovrebbe essere una comunità cristiana. Che prima ancora è comunità umana, di scambio vicendevole, di ricerca comune, di reciproco affetto. Oppure non è affatto ciò che pretende di essere.

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