domenica 10 luglio 2011

"Ricorda il giorno di shabbàt"

Oggi le letture della liturgia ambrosiana sembrano avercela con il mondo. “La carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito ha desideri contrari alla carne” – ammonisce Paolo nella lettera ai Galati, trasferendo germi di una certa visione dualistica dell’uomo, che si ritrova a combattere contro se stesso, irrimediabilmente diviso in spirito e carne.
Ed evidentemente Paolo non fa mistero di che cosa intenda prima di tutto quando parla di “carne”. E il pensiero cristiano successivo cammina nel solco sessuofobico tracciato da lui, e da altri ancor prima di lui, fuori dalla tradizione ebraico-cristiana.
Ma con buona pace di Paolo di Tarso, è possibile l’esperienza di una carne che è carne e spirito insieme. Mentre, d'altro canto, qualche volta ci si imbatte in proposte spirituali di nessun respiro e per questo lontane dal permettere autentiche esperienze spirituali.
Possiamo trovarci di fronte a modi assolutamente senz'anima di parlare di spirito; mentre ci sono parole profondamente spirituali per descrivere la “carne”. Sono le parole dell’amore, del semplice, indiviso amore umano. Come, ad esempio, quelle poetiche che lo scrittore Erri De Luca usa per narrare il primo incontro fra i progenitori, secondo il racconto mitico di Genesi. Qui il dualismo fra carne e spirito che genera angoscia nel cuore dell’uomo e della donna è ancora di là da venire, l'amore è integro e tutta intera l’esperienza umana trasuda di bellezza e autentica spiritualità, proprio perché ancora così prossima alla propria Origine.

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da: Erri De Luca - E disse (Feltrinelli 2011)

Quelle parole avevano fatto l’universo dopo le prime sillabe di annuncio: “Ieì or”, sarà luce. In ebraico quattro vocali e una consonante avevano acceso le notti e illuminato il giorno. L’universo brulicò di scintille. Poi quelle parole avevano chiamato il mondo a farsi, durante i sei giorni di creazione.

Era materia uscita dalla voce della divinità, era sostanza di bellezza perché scaturita da parole. Il monte su cui si fissava la dettatura della divinità era un’arsura rimbombante, dall’alto calava la luce degli inizi.

“Ricorda il giorno di shabbàt”: certo che mi ricordo, lo aspetto una settimana intera, pensò qualcuno, indolenzito ancora dai turni di fatica dell’Egitto e incredulo di trovarsi liberato dai lavori forzati.

La divinità non si riferiva a quello. Intendeva: ricorda il primo giorno di shabbàt del mondo, quando Elohìm cessò la sua manifattura. Come poterlo ricordare? La cellula di partenza della specie umana era presente. Quei due primi, Adàm e Havà, hanno ascoltato l’improvviso silenzio dell’arresto. Ritorna col ricordo allo stupore e allo sgomento. Era il giorno sesto del creato ma per loro era il giorno uno. Venne sera e silenzio, si spalancò la notte e si sdraiarono sotto. Non sapevano se sarebbe tornato un altro giorno e la sua luce. Tutto era nuovo per loro e tutto era già apparecchiato intorno. Seppero che ogni cosa li aveva preceduti, la vita intera esisteva già prima di loro due. Seppero in quel primo buio di essere degli ospiti.

Era finita l’opera, ma a completarla e darle perfezione ci voleva la settima, che in musica si chiama dominante. Il mondo era stato creato con un arrangiamento musicale, le sue regole rispondono alla combinazione di tempi, toni, diesis e bemolle. La coppia ultima nata intendeva le più vaste frequenze, il basso continuo del creato.

Quella sera il mondo si interruppe, come un principio di sordità all’orecchio. Succede anche a chi passa alla penombra da una forte luce. Lentamente distinsero il silenzio del primo shabbàt del mondo. Era bonaccia a mare, la fogliuzza che non tremola più, il vapore che sale dritto dalle narici dei bufali, i loro occhi tranquilli: anche per gli animali quello era il primo sabato, ma loro lo aspettavano.

Ricorda la prima notte dei nostri primi due, si mischiava l’amore allo spavento, la risposta insieme alla domanda. Erano nudi, si protessero abbracciandosi i corpi, la testa nella spalla dell’altro nell’incavo accogliente tra la scapola e il collo. Scoprivano l’incastro che permette a due corpi di fare l’unità.

Fu la prima scoperta della conoscenza, senza la distinzione ancora del bene e del male. Quella prima notte profumava di creato spento. L’amore accelerava l’esperienza, faceva succedere tutto in una notte. E che notte, la prima: non erano stati bambini, l’amore fu il primo dei giochi. Passarono dalle risate al solletico, alla concentrazione di frugarsi. Mentre si strofinavano felici si urtarono le labbra. Stupiti si scansarono, poi le riaccostarono. Si chiusero gli occhi da soli, la vista e tutti i sensi accorsero alla bocca. Nacque per accidente allegro il primo bacio. Al termine del gioco erano arrivati al bacio mille.

Ricorda il giorno di sabato, iniziato la sera del sesto, prolungato nell’insonnia amorosa, nel breve sonno sazio, nel risveglio a giorno canterino. Quello è shabbàt, di quello avrai ricordo. Le donne del Sinai guardarono i mariti, gli uomini si voltarono verso di loro, chiamati da quegli occhi. Che giorno è oggi? Facciamo che è già il sesto, che stasera è shabbàt.

Ricorda la felicità del mattino seguente, la luce sulle palpebre, il risveglio. Era il giorno perfetto, il punto fermo messo a firma del capolavoro. Shabbàt, la cessazione, un suono secco di frutto caduto, il palmo di una mano che si chiude nel palmo dell’altra.

Non era invito a fare gite, scampagnate, era il rumore di un interruttore generale. Neanche luce e fuoco erano ammessi. Smetti, è shabbàt, non è tuo, è della terra, che resti per un giorno senza passi, sgombera di te. Non farai e non farai fare a nessuno al posto tuo: né a tuo figlio e a tua figlia, né al tuo servo e alla serva, né al bestiame. Nemmeno allo straniero che sta nelle tue porte, il sabato è uguaglianza.

Tu leggi, studia, canta, prega, gioca, gusta la tavola e la compagnia. Scrivere? No, neppure quello, ma se sei accanito di scrittura puoi farla sulla sabbia e sulla polvere. Solo il soccorso è ammesso per accorrere a un grido.

“Non farai per te alcuna opera”: questo ti servirà a ricordare il primo shabbàt del mondo, il corpo t’insegnerà, smettendo. Non è il contrario di fare, è l’esecuzione di un ricordo, di quando senza annuncio né segno si fermò la creazione del cielo e della terra. Non che fosse finita l’opera: il rinnovo continua. Si era fermata la musica: le bestie quella notte guardarono in su, i nostri due fecero lo stesso. “Il cielo è il mio sedile, la terra è il mio sgabello,” fa dire a Isaia. Cercavano con gli occhi il posto dove stava il musicista.

(pp. 48-52)

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